31 maggio 2012
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Biografia di Fabio Mauri
• Roma 1 aprile 1926 – Roma 20 maggio 2009. Artista. «Turista di tutte le arti possibili» (Lea Vergine).
• «La mia vita è fatta come di pences. Ci sono delle pences, poi c’è l’orlo e se ne aggiunge un’altra. Ma è abbastanza importante per capire il soggetto del mio lavoro, dagli anni Settanta in poi».
• Cominciò con Mario Schifano alla Scuola di piazza del Popolo, proseguì con lo sperimentalismo del Gruppo 63, si affermò negli anni Settanta con installazioni, performance, libri d’artista che hanno per tema soprattutto la guerra, il fascismo, l’olocausto. «Tra le pieghe della sua esistenza c’è stato anche un profondo disagio psicologico, causato proprio dal dolore della guerra, da cui sarebbe uscito solo con l’intervento dell’elettroshock. “La guerra mi ha stravolto. Ha ribaltato la mia infanzia e giovinezza felice in una famiglia allegra e intelligente, con un padre e una madre formidabili e quattro fratelli, due più grandi, Silvana e Ornella, e due più piccoli, Luciano e Achille, con molti amici fra cui Pasolini. La guerra investe: è una maschera di ferro che stringe la gola. L’ultimo anno fu terribile, a parte il disagio fisico - fame, freddo, paura - c’erano gli amici, uccisi. Finita la guerra sono stato molto malato psichicamente. Volevo suicidarmi, non ero più interessato a vivere. Avevo anche deciso la data, ricordo che era di venerdì. Invece, proprio io che non avevo avuto un’educazione religiosa mi convertii. Capii che c’era Dio e mi rasserenai, anche se il mio Dio fu un Dio terribile, il Dio di Abramo. Cercai di entrare in ordini religiosi, i Carmelitani scalzi o i Certosini, ma da questi conventi sono sempre uscito in barella, non reggevo quella durissima vita. Dalla depressione entrai in un tunnel di angoscia, in un’ascesi fisica e psichica terribile. Essendo diventato religioso non mi potevo neanche più suicidare. Avevo scelto consapevolmente il silenzio. Ero garbato, ubbidivo, ma non parlavo. Non parlai per un anno. In quell’anno di silenzio sono passato da una clinica l’altra. Ho fatto 33 elettroshock: due a settimana, feci anche due volte la cura del sonno e dell’insulina. Posso affermare di essere guarito con l’aiuto dell’elettroshock, cui la modernità guarda con orrore. È anche vero che l’elettroshock somiglia alla sedia elettrica. Si sente il rumore di prova della macchinetta che ti fulmina. Ti bagnano le tempie con l’acqua, applicano i due elettrodi e ti mettono il cuscino sulle ginocchia perché puoi avere lo shock epilettico, e morderti la lingua o slogarti un braccio. Uscito dalla clinica chiesi di fare un viaggio per l’Italia, lungo gli Appennini. Con mia madre e mio padre, lui che era ateo, ma amava questo figlio addolorato, sono andato per santuari, arrivando fino da Padre Pio. Di ritorno, era il 1949, volli visitare una comunità di sciuscià vicino Civitavecchia, al Villaggio del Fanciullo. La vita di comunità fu un’esperienza nuova, per certi versi anche brutale. Fui messo in seguito a capo di una comunità di 120 ragazzi dai 12 ai 16 anni. Erano figli che avevano visto uccidere i padri, o figli di prostitute, venivano la domenica a trovarli, o figli di chi non si sapeva, abbandonati come cani nei campi. Rimasi con loro sei anni. Lì ricominciai a dipingere, insegnavo ceramica ai ragazzi, mi occupavo dei loro studi, giocavo a pallavolo, a calcio, a baseball. Un periodo felice. Scaricato del problema di me stesso, vedevo quanta miseria c’era intorno. È stato un ritorno alla vita. Se uno vuole uccidersi, desidera morire, può regalare la propria vita ad altri. Costa poco. Quando tornai alla vita borghese di Milano, nel 1954, ricominciai a disegnare e dipingere. I miei referenti artistici erano Kokoschka, Nolde. A Carlo Cardazzo, proprietario con il fratello Renato della galleria Il Cavallino di Venezia, piacque molto quello che facevo, mi organizzò subito la prima mostra personale. Ne seguirono altre. Partecipai a una collettiva a Buenos Aires insieme a Fontana, Crippa, Dova. Nel 56 feci una mostra alla Galleria San Babila di Milano con olii su carta. Ne vendetti 52. Con i soldi guadagnati mi trasferii a Roma e sposai Adriana Asti. Fu una passione travolgente, durata circa due anni e mezzo, il matrimonio fu un disastro. A Roma trovai una solitudine totale. Portavo con me quei lavori che avevano avuto successo a Milano, ma non nella capitale. Feci la fame. Andai anche a finire, pagando qualche lira, da una vedova che aveva un gallo. La stanza era un buchetto con il letto. Quando lavavo le mie camicie ci trovavo stampate le zampe del gallo, lo guardavo, come nelle comiche di Chaplin. Insomma la desolazione e la sofferenza erano quotidiane. Avevo fame e non avevo soldi neanche per l’autobus. Facevo delle camminate pazzesche. In una di quelle passeggiate sconsolate, vidi nella vetrina di una galleria, era l’Obelisco, un libro aperto su un’immagine. Era un quadro di Burri. Un sacco con un buco, da cui usciva del rosso. In quel momento realizzai che la pittura non era più la rappresentazione di qualche cosa, ma diventava lei il qualche cosa. Cioè prendeva dentro di sé la metafisicità degli oggetti. Si riproponeva come essenza, non come narrazione. I miei lavori successivi ripartirono da questo punto. Una volta Pasolini venne a trovarmi nello studio che mi aveva prestato un pittore amico, Bruno Caruso. Dei quadri che avevo dipinto disse che ci mancava solo che entrasse in campo Topolino: sembravano cartoni animati. Non seppi rispondere. Erano quadri pre-pop. Quanto al mio pensiero sull’arte, c’è una metafora che ho già usato: l’arte non è fatta solo di talento, è fatta di limiti materiali e personali. Io disegnavo bene, potevo fare molti disegni, avevo un gusto fortissimo per la pittura, mi riusciva facile sperimentarne le varie tecniche. Ma rinunciai alla pittura. Sentivo che qualcuno aveva scoperto un nuovo paese. Mi ci sono avventurato. In un secondo momento ho conosciuto artisti che facevano contemporaneamente un percorso. Scarpitta, Rotella. Siamo stati fra i primi a spingerci, qui a Roma, in questa direzione. Non avevo realmente abbandonato la pittura, ne avevo semplicemente modificato l’uso sintattico e grammaticale: continuavo a lavorare sull’essenza della rappresentazione”» (Manuela De Leonardis).
• Ha avuto una lunga relazione con la fotografa Elisabetta Catalano. C’è una fotografia di Milton Gendel che li ritrae: «Una bionda, giovanissima Elisabetta Catalano guarda incantata un Fabio Mauri serenamente assorto in se stesso» (Giuseppe Scaraffia). (a cura di Lauretta Colonnelli).