31 maggio 2012
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Biografia di Ciro Mariano
• Napoli 21 novembre 1951. Camorrista. Alias ‘o Picuozzo, dal nome del cordone che ciondola dal saio dei monaci. Detenuto nel carcere di Spoleto, in carcere dal 1991, in 41 bis dal 1992 al 2005, condannato in via definitiva all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio.
• «Da ragazzo Ciro Mariano prometteva di diventare un pio accompagnatore delle ultime “parenti di San Gennaro”, quelle fanatiche vecchiette che a maggio e a settembre vanno a propiziare con grandi strepiti il miracolo della liquefazione del sangue del santo. Spesso la madre lo insaccava in un saio bianco da piccolo penitente e lui, così conciato, andava dietro a tutte le processioni in giro per i Quartieri Spagnoli. Queste assidue frequentazioni gli fecero meritare il soprannome di Picuozzo, che in dialetto napoletano vuole dire mezzo prete, frate laico, bigotto. Picuozzo lui, picuozzi i fratelli Salvatore e Marco, avviati per la stessa strada dalle cure materne» (Roberto Ciuni, Le macerie di Napoli).
• Vedendo che il modo più facile per fare soldi ai Quartieri Spagnoli è spacciare cocaina, entra anche lui nel giro, lavorando per conto terzi, specializzandosi poi nel racket e nelle scommesse clandestine. Incline al comando, subentra a Mario Savio, il ras dei Quartieri Spagnoli in declino. «Per me e per tanti altri come me nati nei Quartieri, essere vicino a Mariano era come avere l’amicizia di una grande personalità. Era più che un idolo. A quindici anni già raccoglievo del lotto nero per lui: mi fruttava 500 mila lire a settimana. I Mariano mi portavano con loro nei ristoranti, in giro» (Luciano Avello, pentito).
• Nel 1989 ingaggia una guerra con il clan dei cosiddetti “Faiano”, guidato da Ciro Di Biasi, che gli fanno concorrenza nella stessa zona. Tre le sparatorie nel 1989 (in una viene ferita la madre dei Faiano, Gilda Guarracino), il clou del conflitto è il 16 maggio 1990, nel night club “San Francisco” di Piazza Municipio, abitualmente frequentato da soldati americani. Nella sparatoria muore il guardaspalle di Di Biasi, Umberto Festa, viene ferita la ballerina brasiliana che lo accompagnava, mentre il Di Biasi si salva (colpito in più parti del corpo sembra morto e non viene finito). Interrogato in ospedale dal pm Franco Roberti accusa come mandante dell’omicidio i Mariano («Ci hanno tolto molti spazi. A noi è rimasto solo un poco di lottonero, mentre loro controllano tutto il mercato della droga e gran parte delle giocate delle scommesse clandestine»). Ma dimesso dall’ospedale, citato in aula come testimone, si rimangia tutto: «Non conosco gli imputati. Non ho contrasti con nessuno, altrimenti non andrei nei locali notturni. Non so nulla dei fatti del maggio scorso, né ho fatto dichiarazioni che sono contenute nei verbali di polizia. La firma non è mia. Rimasi coinvolto nell’agguato a Festa, anche se non ero io il bersaglio. Solo un caso».
• Nel 1990 entra ed esce dal carcere per un vizio di forma. Il Tribunale del riesame annulla un ordine di arresto emesso per associazione camorristica, estorsione e organizzazione del gioco clandestino (la richiesta di proroga delle indagini preliminari non era stata notificata all’indagato). Inizia la latitanza e si stabilisce a Roma dove instaura i contatti giusti per riciclare denaro sporco. Ma a Roma Mariano perde il controllo della situazione e deve affrontare una rivolta interna del clan, provocata da due affiliati, Antonio Ranieri detto “Polifemo”, e Salvatore Cardillo, detto “Beckenbauer”, che, scontenti della retribuzione percepita dai capi, assoldano un manipolo di tossici. La dichiarazione di guerra è l’attentato a Enzo Romano, il ragioniere della cosca, che sopravvive alla sparatoria sulla salita Trinità delle Monache, in cui invece perde la vita l’amico Ciro Napoletano (primavera 1991). Cinque giorni dopo scatta la rappresaglia (cosiddetta “strage del Venerdì Santo”). In via Nardones sono ammazzati sotto i colpi di mitragliette Uzi tre seguaci di Cardillo e Ranieri, e feriti tre innocenti (un macellaio, e un marito e moglie affacciati al balcone). In risposta Polifemo e Beckenbauer organizzano un commando per uccidere i sicari della strage a Porta Nolana. Da un furgoncino posteggiato in via Cosma, individuati i bersagli, i killer sparano all’impazzata incuranti dei passanti. Nella sparatoria muore Salvatore D’Addario, un poliziotto non in servizio, che sta facendo compere con la moglie e i figli, e interviene per costringere alla resa i killer. Centrato dai proiettili viene investito dal furgoncino in fuga e schiacciato contro un palo dell’Enel. La polizia organizza un blitz nei Quartieri sequestrando armi e catturando diversi pregiudicati, tra cui uno dei quattro sicari che ha partecipato all’agguato di Porta Nolana, Pasquale Frajese, detto Linuccio ‘e Secondigliano, che una volta arrestato si pente.
• «Ho capito che non c’era futuro per me. Ho sperato, ho pregato che mi arrestassero per poterci dare un taglio. Sì, per confessare. Per raccontarvi come si vive in questa giostra che è la camorra. Come si scende. Perché si sale. La vita di noi camorristi fa schifo. Soltanto adesso mi rendo conto di aver creduto in una cosa che non esisteva: nell’amore. Sapete che cosa mi teneva legato a loro? L’affetto verso i Mariano. Tutte balle. I sentimenti non contano nulla. Noi tutti del clan amavamo Ciro Mariano, il capo. Lui era il vertice. Ma era diverso dagli altri, non lo faceva pesare a nessuno. Era un vero capo, si consigliava con noi, ci faceva sentire importanti. Io ero, come dire, innamorato di lui, non lo dimenticherò mai, anche se ho deciso di tradirlo» (Frajese).
• «Dottò, ‘O Picuozzo ha a disposizione venti killer e io, modestamente, ero uno dei migliori. Lui diceva sempre che più morti si fanno meglio è, perché è dal numero degli omicidi che si pesa l’importanza di un clan. Ho cominciato a lavorare per i Mariano nell’87, poi sono passato con gli scissionisti. Ma ora basta. Ci sono stati troppi morti. Se mi assicurate di proteggere la mia famiglia vi dico tutto, perché Ciro non guarda in faccia nessuno. Pensa solo ai soldi».
• «I Mariano (…) sono potenti. So per certo che sono in grado di comprarsi la loro libertà. Io stesso ho visto partire per Roma uno dei tre fratelli, Salvatore ‘o Minorenne, poco prima che Ciro, il capo, fosse scarcerato. Portava con sé molto denaro».
• Le dichiarazioni di Frajese permettono agli inquirenti di incastrare Ciro Mariano per un altro delitto, la strage al circolo Canottieri, al Molosiglio, consumata nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 1989 (nella piscina del club esclusivo si allena Massimiliano Rosolino, al tempo undicenne). Vittime Giovanni Costanzo, aspirante boss di Pozzuoli e tre suoi accoliti. L’agguato è stato organizzato da Ciro Mariano su mandato di Antonio Malventi, affiliato di Carmine Alfieri, in cambio della gestione di una fetta del territorio puteolano.
• Sposato con Concetta Tecchio (con cui ha avuto cinque figli, tutti maschi), la Squadra mobile di Napoli sta per arrestarlo nel luglio 1991, inseguendo la sua amante, Francesca Bourelly, ventiquattrenne, figlia di un ingegnere del Vomero, quartiere bene napoletano. La Bourelly è partita in compagnia di un amico alla volta di Malaga per andare incontro a Ciro, quando fa perdere le sue tracce (il suo accompagnatore è stato arrestato all’aeroporto di Roma per favoreggiamento). I due si dileguano, la loro presenza viene segnalata in Francia e poi in Italia, a Firenze e infine a Roma, dove, il 6 novembre 1991, Ciro Mariano viene arrestato per associazione camorristica, estorsione e organizzazione del gioco clandestino. ‘o Picuozzo ha un appuntamento decisivo per riciclare i soldi sporchi, in un ristorante di Cinecittà. I camerieri che prendono le ordinazioni in realtà sono agenti della Criminalpol Lazio e della Prima sezione della Squadra mobile di Napoli. All’appuntamento Mariano doveva concludere un affare: acquisire la società finanziaria Synthesis, destinata al fallimento dopo che l’amministratore Edoardo Sorrentino aveva deciso di finanziare gli spettacoli di due teatri napoletani, il Cilea e il Politeama, amministrati dall’impresario Raffele Scarano. «Stretto da debiti, Sorrentino finì in mano agli usurai. Nel complesso giro di finanziamenti e richieste di prestiti anche al Banco di Napoli, compare così un emissario dei Mariano: Michelangelo La Porta. Alla fine degli spostamenti di cambiali e dei movimenti di denaro, Ciro Mariano si sarebbe trovato proprietario a metà del Politeama, teatro a pochi metri dei Quartieri Spagnoli, spendendo solo 250 milioni di lire» (Gigi Di Fiore).
• Dal carcere il boss continua a organizzare il reimpiego delle ricchezze accumulate con droga, estorsioni e gioco clandestino. Il pm Maurizio Fumo, durante un’audizione davanti alla commissione parlamentare Antimafia, avvalendosi di intercettazioni ambientali e dichiarazioni dei pentiti: «Un altro importantissimo ospedale napoletano, il Pellegrini vecchio nella zona di Pignasecca, si dice che sia sotto il controllo di un altro clan importantissimo, quello dei Mariano (…). Un collaboratore di giustizia ci ha detto che il controllo non si limita a questo ma si estenderebbe addirittura ad alcuni alberghi. Si tratterebbe di alberghi nei quali certe persone possono recarsi senza essere registrate; vi sono inoltre alberghi che, per il solo fatto di essere soggetti al controllo di un certo clan, possono o debbono ospitare determinate manifestazioni, anche politiche e elettorali, di soggetti che evidentemente sono vicini a quel clan o da esso si aspettano voti».
• 8 giugno 1993. Inizia il dibattimento contro Ciro Mariano, i suoi fedeli e gli scissionisti (i capi d’imputazione riguardano 13 omicidi). Tra le parti civili i familiari di Vincenzo Ummarino (pensionato morto ammazzato per sbaglio durante una sparatoria ai Quartieri), e la moglie di D’Addario. Tra gli imputati, Umberto Bernasconi, figura minore, e Giovanni Labonia (già condannato a 23 anni per l’omicidio del padre della fidanzata), prima affiliato di Ciro Mariano, poi passato agli scissionisti. Entrambi decidono di collaborare con la giustizia, Labonia confessando perfino di aver usufruito delle licenze premio previste dalla legge Gozzini per commettere i suoi omicidi. La Corte, il 10 marzo 1994, infligge tre ergastoli al boss e ad altri componenti della sua organizzazione. Frajese viene condannato a 30 anni, Bernasconi a 1 anno e 4 mesi, Labonia a 14 anni. Il fratello di Ciro, Marco, a 14 anni, Cardillo e Ranieri, a 14 e 13 anni. La sentenza condanna gli imputati a risarcire il ministero dell’Interno per l’uccisione di D’Addario, a 200 milioni di lire.
• Dopo appena tre giorni si conclude anche il processo aperto con il pentimento di Carmela Palazzo (detta “Cesarella2, sorella di uno dei camorristi uccisi durante la guerra dei Quartieri Spagnoli). La Terza sezione del Tribunale di Napoli condanna Ciro Mariano a 26 anni di carcere, infliggendo pene pesanti anche ai componenti dello stato maggiore della sua cosca.
• Dall’accusa di essere il mandante della strage del circolo dei Canottieri, in concorso col fratello Marco (e dei reati connessi di omicidio di altri camorristi), Ciro Mariano viene assolto.
• Luglio 1996. Mariano viene assolto in Appello dall’accusa di essere il mandante della “strage del Venerdì Santo” (confermata la condanna a 19 anni per associazione camorristica, e la condanna all’ergastolo del fratello Salvatore). L’associazione viene schiacciata: 56 imputati condannati a pene comprese tra i 9 e i 25 anni (Frajese a 30). Nove mesi dopo, però, la Cassazione conferma la pena comminata in Appello e accoglie il ricorso della Procura generale contro l’assoluzione per la “strage del Venerdì Santo” (Bruno De Stefano).
• Nel 2005 Mariano ricorre contro il decreto ministeriale che ha prorogato nei suoi confronti il regime 41 bis. Il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila accoglie «il ricorso sul rilievo che non trovava riscontro quanto affermato nel decreto ministeriale, e cioè che il Mariano poteva mantenere collegamenti con la criminalità organizzata attraverso i colloqui carcerari con la moglie e i figli, risultando costoro immuni da precedenti penali significativi (essendovi solo a carico della moglie una vecchia condanna per violazione delle norme sull’assicurazione obbligatoria) e condurre vita economicamente modesta e senza frequentazioni con persone pregiudicate» (Cass. 46592/05, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto a sua volta dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello dell’Aquila contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza locale).
• Racconti Nel 2010 ha partecipato con un racconto autobiografico alla prima edizione del premio letterario “Racconti dal carcere”, bandito da Siae, in collaborazione col Ministero della Giustizia – Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (requisito: essere detenuti e condannati almeno con sentenza di primo grado). Ha spiegato, tra l’altro, il suo punto di vista sui pentiti. «Nell’ambiente malavitoso, le regole sono semplici. Non sgarrare, cioè non fare il furbo a scapito degli amici e, in caso di disgrazia, farsi carico dei problemi personali e familiari del compagno, rispettare i carcerati e i vecchi galeotti, in ultimo, ma indispensabile, non fare l’infame.
(…) Potrei appellarmi al dettame costituzionale che sancisce il recupero del condannato a prescindere dal reato, ma lo ritengo una perdita di tempo, perché conosco la risposta. Se vuoi ottenere un beneficio, devi meritarlo, art. 58-ter, cioè, dimostrare, attraverso la collaborazione, il taglio netto con gli ambienti criminali.
Come diceva quel famoso trio napoletano: ammè mè par’ ‘na strunzat. Infatti lo dimostrano le copiose consorterie formate da questi camaleonti (…). Inoltre, ci sono una moltitudine di pentiti che si sono pentiti di essere pentiti, per cui, come volevasi dimostrare, non basta un articolo del codice per stabilire se una persona è più meritevole dell’altra. In ogni caso, il pentimento è un fatto puramente personale che riguarda la coscienza dell’uomo come persona. Esso non può avere legittimità quando è imposto come baratto per avere un vantaggio. Il ravvedimento non si deve ostentare, e soprattutto, non si compra. Infatti, la lettera d’indulgenza in uso dall’inizio del sedicesimo secolo, è stata abolita. Per cui non intendo lavare i miei peccati con il baratto, né riacquistare la libertà vendendomi l’anima, offenderei oltre i vivi e i morti, anche la memoria degli scugnizzi. L’unica cosa che rimane dopo la morte è il ricordo, almeno quando passeranno vicino alla tomba, tutto si potrà dire, tranne che eri un’infame carogna. Chi non ha peccati, scagli la prima pietra». Ha anche smentito la genesi ufficiale del suo soprannome. «A proposito, quest’appellativo non ha nessun nesso con la chiesa, come qualcuno erroneamente ipotizzava, era solo un vezzo di mia madre, affibbiatomi per il mio mite carattere. Strano, ma vero, dice che ero un bravo ragazzo da piccolo, come vuole il proverbio: ogni scarrafone e bello a mamma sola».
• La moglie Concetta, intervistata per Repubblica da Emilio Piervincenzi (27/2/92): «Io sono la donna di Ciro Mariano. E gli sono completamente dedicata. Ci adoriamo, pelle su pelle. Ci siamo conosciuti che lui aveva diciassette anni e io diciotto, lui faceva borse e io scarpe. Fino al 1980 abbiamo condotto una vita serena. Poi c’è stato il primo arresto. Il carcere. La latitanza, dove l’ho seguito finché ho potuto. Abbiamo fatto undici figli. Sei sono morti, aborti spontanei. Cinque, tutti maschi, stanno con me. Senza Ciro, io non sono nessuno». Eppure il suo Ciro ha avuto un’amante, una ragazza giovane di buona famiglia, Francesca Bourelly. «Sì, lo so. Ma questo per me non cambia niente. Quando sono venuti a dirmelo, ho risposto che Ciro era troppo vecchio per fare queste cose. Sì, ci ho scherzato sopra». Cos’è la camorra, signora Mariano? «Mah, non saprei. Diciamo che è una cosa che sta nell’aria». (a cura di Paola Bellone).