31 maggio 2012
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Biografia di Nicola Mancino
• Montefalcione (Avellino) 15 ottobre 1931. Politico. Avvocato. Eletto al Senato nel 1976, 1979, 1983, 1987, 1992, 1996, 2001, 2006 (Dc, Ppi, Ulivo). Presidente del Senato nella XV legislatura (1996-2001). Ministro dell’Interno nei governi Amato I e Ciampi (1992-1994), legò il suo nome al decreto che istituiva il reato di istigazione al razzismo. Dall’agosto 2006 all’agosto 2010 vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. «Sono cattolico, con difetti e virtù».
• «Soprannominato Piedone per la figura alta e ben piantata che tradisce la rustica progenie, Nicola è avvocato. Già il padre aveva fatto un salto sociale diventando ferroviere. Il giovanotto, dc dall’età della ragione, entrò nella cerchia di Fiorentino Sullo, re dei luoghi negli anni ’50 e ’60. Si trovò così al fianco di due insieme ai quali farà strada: Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco. Sullo, che conosceva i suoi polli, considerò De Mita l’attaccante del gruppo, Bianco l’intellettuale e Mancino il “mastacconcia”, cioè maestro nell’acconciare, ovvero recuperare rapporti e sistemare pendenze. “Ictu oculi”, ne aveva individuata la predisposizione al pescebarilismo cerchiobottista. Mastacconcia fu incaricato di combattere i monarchici di Achille Lauro, molto forti anche nell’Avellinese. Intrecciò epiche battaglie con Emilio D’Amore, il ras locale. Poi, com’è nella sua natura, Nicola sparse vasellina e i due sono diventati amici. Quando alla fine degli anni Sessanta De Mita fece le scarpe a Sullo, sottraendogli l’elettorato, Mastacconcia si accodò a Ciriaco diventandone il principale pretoriano. Da allora ha fatto carriera nella sua ombra. Esperto in clientelismo più di De Mita, Nicola ruppe con Ciriaco nel 1994, quando, dopo avere retto il Viminale, fu chiaro che ad Avellino era più potente dell’altro e poteva distribuire più prebende di lui. Così l’amicizia fu travolta dall’invidia del compare. Gli andò invece meglio in due tristi occasioni. Fu accusato di avere preso tangenti sugli appalti post terremoto irpino e di aver coperto i fondi neri del Sisde. In entrambi i casi fu assolto» (Giancarlo Perna).
• Dopo lo scioglimento della Dc aderisce al Partito Popolare che lascia nel 1994, perché contrario all’alleanza con Silvio Berlusconi. Partecipa alla nascita della Margherita.
• «Ho sempre preferito fare il capogruppo rispetto a incarichi di governo. Nel 1992 fui nominato ministro dell’Interno, a cavallo tra l’assassinio di Falcone e quello di Borsellino. Quando sono andato a Palermo dopo via D’Amelio, ero al Viminale da appena diciotto giorni. La gente, che era accorsa numerosa, mi gridava: “Mancino, vai via”. Mi sentii colpito, ferito».
• Eletto alla vicepresidenza del Csm all’unanimità (candidatura lanciata da Casini), avrebbe dovuto contribuire al miglioramento dei rapporti tra politica e magistratura. Solidale con Mastella («non ritengo ci siano le condizioni che legittimano la custodia cautelare di Sandra Mastella), ha dovuto affrontare gli spinosissimi casi Forleo (su cui ha aperto un’inchiesta finita con l’assoluzione) e De Magistris (trasferito, invece, «perché ha» tra l’altro «interpretato il ruolo di pm come una missione»). Avendo coperto Fabio Roia e Livio Pepino, i due membri del Csm che fecero filtrare anzitempo un parere di incostituzionalità sul cosiddetto “emendamento salva-processi” (vedi Silvio Berlusconi e Niccolò Ghedini), ha rischiato di doversi dimettere, gesto che ha più volte minacciato durante quel periodo di forti tensioni. Si riferisce di quel periodo anche una sfuriata con i magistrati («Parlate troppo con i giornalisti, volete sempre apparire» secondo una cronaca della Stampa).
• Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo l’ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di falsa testimonianza nell’ambito delle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. L’ipotesi che ci sia stata una trattativa tra alcuni apparati dello Stato italiano e la mafia era inizialmente stata presa in considerazione nel 1998 dalla Procura di Firenze, in seguito ad alcune dichiarazioni di Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Vito Ciancimono. Negli anni successivi, l’indagine passò alle procure Caltanissetta e di Palermo. Nel 2009 l’inchiesta ricevette nuovo impulso in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (vedi), figlio di Vito, il quale dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il Ros per giungere a un accordo mirato alla cessazione delle stragi e alla consegna dei latitanti. Accordo che avrebbe avuto la copertura politica degli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni. Massimo Ciancimino sostenne di avere ricevuto il famoso “papello”, contenente le richieste di Totò Riina, dal mafioso Antonino Cinà con l’incarico di consegnarlo al padre, che però scrisse un altro papello (il cosiddetto “contro-papello”), dal momento che le richieste di Riina erano, a suo dire, improponibili: circostanza successivamente confermata anche dal fratello di Massimo, Giovanni, che riferì ai giudici che il padre gli chiese un parere giuridico, da avvocato, sulle richieste avanzate nel documento. In seguito alle dichiarazioni di Ciancimino, le Procure di Palermo e Caltanissetta ascoltarono Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Fernanda Contri e Luciano Violante come persone informate sui fatti e questi dichiararono di essere stati avvicinati dall’allora colonnello Mori in relazione ai contatti con Vito Ciancimino e che il giudice Paolo Borsellino era a conoscenza di questi contatti. Venne così ascoltato anche Nicola Mancino, il quale però dichiarò di non averne mai saputo nulla e negò, come aveva già fatto in passato, di aver incontrato al Viminale il giudice Borsellino il 1 luglio 1992, nonostante la ricostruzione della giornata fatta dalla sorella del giudice Rita, la testimonianza dell’ex ministro Martelli e le agende del magistrato affermassero il contrario. Il collaboratore di giustizia Mutolo, che quel giorno stava testimoniando proprio davanti a Borsellino, al riguardo racconta che il giudice gli disse «mi ha telefonato il ministro, manco due ore e poi torno» e poi racconta però «Borsellino molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada». Anche l’avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò racconta che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro, lo vide entrare, lo vide uscire poco dopo e quindi entrò a sua volta, ma da solo, non ricordando di aver incontrato Bruno Contrada ed escludendo che Borsellino gliene abbia parlato. Mancino continua invece a sostenere di non avere «precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla, era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza». Nega inoltre di averlo convocato. In seguito a tali dichiarazioni Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, accusò Mancino di non essere credibile quando afferma di non ricordare di un eventuale incontro con Paolo considerata la visibilità mediatica che stava avendo il magistrato dopo la strage di Capaci. Mancino replicò a tali dichiarazioni con una lettera al Corriere del 17 luglio 2009 dove faceva presente che stando a quanto racconta Mutolo il giudice Borsellino non avrebbe incontrato lui ma altre persone. Mancino sostenne inoltre che non avrebbe avuto nessun motivo di negare quell’incontro nel caso ci fosse stato e fece notare che il giorno del presunto incontro era per lui il primo giorno di insediamento al Viminale. «Il suo mancato ricordo fu oggetto di una forte campagna mediatica, ma alla fine non è per questo che si ritrova imputato di falsa testimonianza. (…) A Mancino si imputa di non avere confermato la deposizione di Claudio Martelli che disse di essersi lamentato con lui non appena seppe dei colloqui investigativi del Ros con Vito Ciancimino. In sostanza si tratta della parola dell’uno contro quella dell’altro, entrambi all’epoca ministri. La seconda questione riguarda l’avvicendamento al Viminale con Enzo Scotti, rimosso secondo l’accusa perché molto duro ed efficiente contro la mafia. Le cronache dell’epoca però raccontano che Scotti non era disposto a dimettersi da deputato, come aveva chiesto l’allora segretario della Dc Martinazzoli ai futuri ministri del governo Amato. E Mancino questo confermò ai giudici di Palermo. Anche qui Martelli ha scelto la versione opposta, più funzionale all’accusa, ed è stato creduto. In parole povere, il retroscena politico, terreno giuridicamente scivoloso, è diventato materia da capo di imputazione» (Massimo Bordin) [Fog 30/1/2014].
• Durante le indagini, la Procura di Palermo sottopose Mancino a intercettazioni telefoniche e registrò alcune telefonate che l’ex ministro fece al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (vedi) e al dottor Loris D’Ambrosio (consigliere giuridico del Quirinale). Nel luglio 2012 Salvatore Borsellino chiese al presidente Napolitano che quelle intercettazioni venissero pubblicate, in nome della trasparenza istituzionale, e come segno di determinazione nel ricercare la verità. Nel gennaio 2013 la Corte Costituzionale, accogliendo il ricorso del Quirinale contro la Procura di Palermo per conflitto di attribuzione, dispose la distruzione delle intercettazioni. In seguito a queste disposizioni, gli avvocati di Massimo Ciancimino presentarono ricorso presso la Corte di Cassazione contro la distruzione delle intercettazioni: il ricorso venne ritenuto inammissibile e, nell’aprile del 2013, il giudice per le indagini preliminari di Palermo distrusse le intercettazioni.
• Il 15 maggio 2014 ha reso dichiarazioni spontanee nel corso di un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia dedicata all’ascolto delle intercettazioni delle sue conversazioni con l’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, ribadendo: «Non ho mai cercato di influire sulle indagini, sottolineai solo a Napolitano la necessità di esercitare funzioni di coordinamento. Non ci fu nessun cedimento né nei confronti della trattativa né sull’inasprimento del regime del 41 bis». Alessandra Ziniti: «“E come si fa ad intervenire? Qui è complicato. Posso provare, ma francamente come si fa?”». La voce imbarazzata di D’Ambrosio risuona nell’aula-bunker. È così che l’ex consigliere giuridico di Napolitano scomparso lo scorso anno risponde a Nicola Mancino in una delle tante telefonate in cui l’ex ministro chiede con insistenza un intervento del Capo dello Stato nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. È il 5 marzo 2012 quando l’ex senatore sollecita a D’Ambrosio un intervento, come l’avocazione dell’inchiesta da parte dell’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. E si sfoga: “Ma può essere mai che Martelli dice una sciocchezza e io debba invece essere perseguitato dai pubblici ministeri? Nicola Mancino, dal 2009, non è più nessuno: è stato emarginato da tutti, perfino dal Partito Democratico”. Era preoccupato in quei giorni Mancino dal possibile confronto con l’ex guardasigilli Martelli che ai pm di Palermo aveva detto di averlo informato dei contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino» [Rep 16/5/2014].
• Sposato con Giovanna Di Clemente, un figlio.
• Grande tifoso del Torino: «Da ragazzo tifavo per Ettore, il debole, non per Achille. Invece sul piano calcistico tifavo Torino perché era imbattibile».