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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Roberto Mancini

• Jesi (Ancona) 27 novembre 1964. Ex calciatore. Allenatore. Dell’Inter, dove è tornato il 14 novembre 2014, in seguito all’esonero di Walter Mazzarri. «Non si dovrebbe mai tornare dove si è fatto bene, ma l’affetto per l’Inter mi ha convinto».
• Esordio in Serie A ancora sedicenne (13 settembre 1981) con il Bologna, vinse due scudetti (Sampdoria 1991, Lazio 2000), due coppe delle Coppe (Sampdoria 1990, Lazio 1999) ecc. In Nazionale 36 presenze e 4 gol. 19° nella classifica del Pallone d’oro 1991, 20° nel 1988. Dal 2004 al 2008 allenatore dell’Inter, ha vinto tre scudetti consecutivi (2006, 2007, 2008, il primo a tavolino). Poi, dal dicembre 2009 al maggio 2013, al Manchester City, dove ha conquistato un campionato (2012) una Fa Cup (2011) e un Community Shield (2012). Dal settembre 2013 al maggio 2014 al Galatasaray, dove ha vinto la coppa di Turchia. Già alla guida di Fiorentina e Lazio, tra campo e panchina ha vinto dieci volte la Coppa Italia.
• Figlio di Aldo, falegname, e Marianna, infermiera: «È andato via di casa a 13 anni, ancora mi ricordo quando mi disse: “Mamma, mi hanno preso, mi hanno preso”. Andava a Bologna, e io mica ero tanto felice, anche perché girando in città a un certo punto, sotto un portico, vidi alcuni sbandati sdraiati per terra, mi sembravano drogati. Ho guardato mio marito e l’ho minacciato: “Se mi torna a casa così ti faccio vedere io...”. L’altro trauma è stato quando, diciassettenne, si è trasferito a Genova. Lui e suo padre mi hanno detto tutto a cose fatte: temevano che mi opponessi. Bologna, in fin dei conti, era vicina a casa, Genova meno. Invece, è stata una fortuna, perché Paolo Mantovani fu un vero padre per Roberto» (da un’intervista di Mirko Graziano).
• Boniperti, che lo voleva alla Juventus, arrivò con un giorno di ritardo: «Sliding doors. Chiamò il Bologna il mattino dopo la chiusura del mio trasferimento alla Samp. Se le due telefonate fossero soltanto arrivate assieme, io avrei spinto per la Juve. Era la prima stagione di Platini, l’avrei iniziata in panchina: ma con Michel avrei trovato in fretta la maniera di integrarmi, e avreste visto molte belle giocate» (a Paolo Condò) [Gds 18/1/2014].
• «È stato un fuoriclasse del livello di Baggio. Il che significa avere il calcio dentro, pensarlo in modo categorico e personale, avere la capacità di vederlo dove gli altri vedono solo spazi vuoti. Mancini ha giocato per venti anni, una carriera doppia sempre ad alti livelli. Ha vinto due scudetti con due squadre improbabili, Sampdoria e Lazio. Come i veri fuoriclasse ha trasformato i luoghi in cui ha giocato, li ha resi vincenti fino a livelli impensabili (la sua Samp ha vinto la Coppa delle Coppe e ha perso ai supplementari la Coppa dei Campioni). Poi lasciandoli, li ha riconsegnati alla loro normalità, confermando che la differenza era lui» (Mario Sconcerti).
• «Le avventure in Lazio e Fiorentina forse spiegano Mancini meglio di molte interviste. Sembra che Roberto abbia bisogno di sentirsi indispensabile. Come ai tempi della Sampdoria, quando tutti dicevano che la formazione la facevano lui e Vialli, invece di Boskov. Ci credeva pure lui, probabilmente, prima di smettere di giocare e mettersi in panchina: “È vero mister Boskov ci consultava, ma era tutta una finta per farci sentire importanti. Poi decideva da solo”» (Beppe Di Corrado).
• «L’azzurro è stato un rimpianto e un tormento, più di 100 convocazioni e in concreto 36 presenze e 4 gol» (Giulia Zonca).
• «La sua storia è di quelle che fanno la gioia dei giornalisti: se parla ti dà un titolo. Con i primi allenatori della Samp (Ulivieri e Bersellini) ogni tanto litigava. Il mitico sergente di Borgotaro lo querelò pure, ma anni dopo, per un “coglione” di troppo finito in un libro. Paolo Mantovani era il suo secondo papà. Però lo fece arrabbiare quando sostenne l’iniziativa per cambiare il nome dello stadio di Marassi, dedicato a un calciatore genoano. Il presidente gli ricordò che l’ingegner Luigi Ferraris era soprattutto un eroe (medaglia d’argento) scomparso nei primi mesi di guerra. Da Boskov in poi ha cominciato a comandare in tutte le squadre dov’è stato (tranne la nazionale: Vicini e Sacchi non sono dei fratelli), prima come giocatore, poi come allenatore. E quindi i bersagli sono diventati gli arbitri e gli avversari. Alternava fantasie in campo a cattiverie fuori. Come quella del gennaio 1987, dopo un Atalanta-Sampdoria (1-0): “Gli ultrà dovrebbero sfondare i cancelli e andare a picchiare gli arbitri”. Tre giornate e niente nazionale» (Roberto Perrone).
• «Da giocatore entrava e usciva dalle polemiche con gli arbitri e un suo gesto stizzito verso i giornalisti gli costò probabilmente il posto che avrebbe potuto avere in Nazionale, lui che è stato, come diceva Zico, “uno dei più grandi numeri 10 di quegli anni”. Da allenatore gli va peggio. Sarà colpa del modo in cui entrò nella categoria, sedendosi sulla panchina della Fiorentina nella stessa stagione in cui era già stato vice allenatore della Lazio: gli concessero una dispensa e puzzò di raccomandazione, immaginando l’ombra di Geronzi, il banchiere che aveva prestato soldi a tutto il calcio e, da creditore, poteva agevolare i suoi amici. Qualche altro passo falso lo ha commesso. Ad esempio convinse i giocatori della Lazio agonizzante di Cragnotti a spalmare i contratti su più anni, ma si dimenticò del suo, per cui una pasta d’uomo come Peruzzi avrebbe voluto appenderlo alle grucce dello spogliatoio. Di amici nel calcio se ne è fatti pochi. Persino Lippi, che lo vide arrivare nella Samp di cui allenava la Primavera, in una telefonata con Moggi ne conviene che bisogna fargliela pagare. E poi le altre frizioni con i suoi colleghi: prima di un derby romano dichiarò che Capello gli stava antipatico, Novellino e Mazzone non lo amano, Scoglio lo detestava e c’è questa baruffa con Spalletti, non a caso allenatore della Roma, nemica eterna. Un suo problema è di non aver mai coltivato la diplomazia e il paraculismo: alle molte ovvietà del calcio, ogni tanto Mancini aggiunge cosa pensa davvero. Ragiona a pelle» (Marco Ansaldo).
• Ha perso la panchina dell’Inter, esonerato da Moratti nonostante i tre scudetti consecutivi, causa uno sfogo dopo l’eliminazione in Champions League contro il Liverpool (11 marzo 2008, «fra tre mesi penso che non sarò più l’allenatore dell’Inter...») «che disorientò lo spogliatoio e fece infuriare il presidente per inopportunità e intempestività» (Mirko Graziano).
• «Nasco juventino e quindi non ho mai pensato alla Juve come a una nemica».
• «È incredibile come la Juve sia diventata la grande avversaria della mia vita. Da bambino papà mi portava a Torino alla domenica, col pullman dello Juventus club Jesi. Partivamo alle sei del mattino con il cestino preparato dalla mamma. Sette ore di viaggio, ma non ci pesavano, eravamo tifosissimi. Certo che il destino sceglie strade strane...» (a Paolo Condò).
• Allenerebbe volentieri la Samp, «anche se quando ci penso, però, mi chiedo con inquietudine cosa succederebbe se fallissi. Verrebbe cancellato tutto il buono di quei quindici anni? Ho paura di sì, il calcio è anche crudele».
• Sposato con Federica, napoletana, figlia di un industriale della pelle conosciuta a Cortina. Due figli, Filippo (Genova 13 ottobre 1990) e Andrea (Genova 13 agosto 1992), entrambi cresciuti nelle giovanili dell’Inter, il maggiore nel 2008 giocò con la prima squadra in coppa Italia, poi dal 2011 al 2013 al Manchester City.
• Fama di dandy, «la sciarpetta annodata e il capello alla Oscar Wilde non sono solo scelte estetiche: rappresentano una sfida silenziosa al mondo bruto degli stadi» (Beppe Severgnini).