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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Fernanda Pivano

• Genova 18 luglio 1917 – Milano 18 agosto 2009. Scrittrice. Traduttrice. Saggista. Colei che ci ha fatto conoscere la grande letteratura americana, in particolare i beat. Nel 2008 ha pubblicato Fernanda Pivano. Diari 1917-1973 (Classici Bompiani, a cura di Enrico Rotelli e Mariarosa Bricchi), nel 2007 Lo scrittore americano e la ragazza perbene. Storia di un amore: Nelson Algren e Simone de Beauvoir (Pironti) e ha portato in scena il suo primo spettacolo teatrale, La guerra di Piero (dalla canzone di Fabrizio De André). «Io vivo sognando, specialmente da sveglia».
• Il nonno Francio Smallwood, scozzese, di professione poliglotta e console onorario del Siam, fu uno dei tre fondatori della Berlitz School. Il padre, banchiere, fu rovinato dal regime fascista: la moglie lo trovò un giorno con la rivoltella fumante in pugno e un proiettile nel materasso. «Non era stato capace di spararsi, ma neppure di sopravvivere alla rovina. Tirò avanti ancora un poco, spegnendosi».
• «Sembrava di stare in una casa vittoriana. Papà tradiva la mamma e lei era sempre in lacrime».
• «Mi sono trasferita da Genova a Torino nel 1929, avevo dodici anni. Era la città più diversa da Genova che si potesse immaginare. Non c’era il mare, non vedevo, come a Genova, un grande parco di magnolie. A Torino la mamma piangeva perché non c’era il mare e io piangevo perché vedevo piangere la mamma. Da più grande, devo dire che ero diventata molto bellina in quell’epoca, ho avuto come professore di liceo Cesare Pavese che mi ha insegnato a studiare sulla Storia della letteratura di Momigliano e di De Sanctis. Mi aveva insegnato il mestiere del traduttore facendomi vedere un libro di Faulkner che stava traducendo e insegnandomi a sottolineare di rosso le parole che dovevo cercare sul vocabolario e di nero quelle che erano le ripetizioni. Mi ha insegnato a conservare nella traduzione italiana le ripetizioni del testo originale, cosa che è sempre stata il mio trucco professionale. Hemingway mi ha mandata a chiamare perché aveva saputo che le SS tedesche mi avevano arrestato perché avevano trovato in una retata alla casa editrice Einaudi il mio contratto di traduzione per Addio alle armi che era stato vietato dal governo fascista e nazista. Ogni mattina a Cortina e a Cuba dalle cinque del mattino a mezzogiorno mi permetteva di stare vicino a lui mentre lavorava e mi insegnava a tagliare intere pagine per raggiungere quella scrittura semplice di cose semplici e di personaggi semplici che è stata la sua gloria. Ho vissuto l’utopia beat fino al collo, ma non mi sono né drogata né ubriacata né ho scopato sulla scia della liberazione sessuale» (da un’intervista di Alain Elkann).
• «Con Pavese non c’è mai stato nulla. Non è vero quanto hanno scritto, che lui fosse innamorato di me. Era supplente al mio liceo, il D’Azeglio, a Torino. Ci diceva: leggete Croce, leggete De Sanctis. Io andai a cercare i loro libri nella biblioteca di mio padre e li portai a scuola. La nostra storia è cominciata così. Quando tornò dal confino, denutrito perché aveva soldi solo per il pane e per l’uva, lo incontrai in piscina. Avevo appena fatto il tema della maturità, contro la retorica del regime, “mettiamo fiori nelle canne dei fucili” avevo scritto proprio così, e il professore che portava un distintivo fascista mi aveva dato 3. Peggio di me era andato solo Primo Levi: 1. “Perché vuole studiare letteratura inglese signorina? È più interessante quella americana”, mi disse Pavese. Io gli chiesi quale fosse la differenza. Rispose: “Io ho portato la letteratura americana in Italia, e le assicuro che c’è differenza”».
• «Tutto accadde in coincidenza con il rovinoso crollo finanziario di mio padre. Io avevo già pubblicato per Einaudi la traduzione di Spoon River e il fatto che in casa ormai scarseggiassero i soldi mi avvicinò alla casa editrice torinese. Ricordo che Einaudi mi fece un contratto di 50 mila lire per la traduzione di Addio alle armi. Cominciai a lavorare per loro dall’interno. Se non eri snob e antifascista non stavi lì dentro. O non ti facevano entrare. Giulio era bravo. Bravo, odioso e insultante. Ma non sbagliava quasi mai. Possedeva un intuito straordinario per i libri. E io lo rispettavo molto, anche se era veramente ignorante. Non mi sono mai accorta della sua bellezza. Di affascinante aveva quel modo di parlare con un filo di voce. Una vocetta insinuante, cattivella, da despota mascherato da innocente».
• «Conobbi Faulkner. Forse il più grande fra gli scrittori americani. Incontrai Dos Passos ed Henry Miller. Lo conobbi a New York, era insieme a Anaïs Nin che era molto carina e che invidiai per la sua relazione con Miller. Lui era un uomo fantastico per il quale persi un po’ la testa. Ricordo che mi disse: “Quando parli con qualcuno che ti interessa non guardargli mai la bocca ma gli occhi e impara a leggerli, capirai se ti sta dicendo cose vere”».
• «Un giorno di tanti anni fa andai a vedere la casa in cui si era suicidato Hemingway. Era sceso da una scala per andare a prendere il fucile in cantina. E mentre scendeva cantava una canzoncina che io gli avevo insegnato: “Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono, porto i capelli neri, sui sentieri dell’amor”. È stato molto duro apprendere questo dettaglio».
• «Con Hemingway non c’è mai stato nulla, neanche un bacio. Non è vero quanto hanno scritto, che lui mi chiese in moglie. “Tell me about the nazi”, parlami del nazismo, mi disse. Mi chiamava la sua Giovanna d’Arco. Parlavamo la sua lingua, un misto di inglese, spagnolo e francese, con qualche parola di italiano. Lui preparava la fine. Quando andò in India, prese una camera sopra quella in cui si cremavano i cadaveri, per fiutare la morte».
• «Pavese si ammazzò per poca vita, Hemingway per troppa e quindi poteva ricordare che cosa aveva perso. Due o tre giorni prima di morire mi telefonò e disse: “Nanda non posso più andare a caccia, non posso più fare all’amore, non posso più bere, non posso più scrivere”. E poi si è ucciso».
• È stata a lungo sposata col grande architetto e designer Ettore Sottsass (1917-2007). «L’unica cosa che voglio dimenticare della mia vita è il matrimonio».