31 maggio 2012
Tags : Giuseppe Penone
Biografia di Giuseppe Penone
• Garessio (Cuneo) 3 aprile 1947. Artista. Protagonista dell’arte povera. «L’aria che immetto nello spazio compiendo un atto involontario come respirare, crea un volume nuovo che è già una scultura».
• «Artista straordinario, forse il più grande tra i nostri viventi» (Lea Mattarella).
• Studi all’Accademia di Belle Arti di Torino. A ventitré anni è a New York, al MoMA, a venticinque a Documenta V a Kassel. «È cresciuto nei boschi del Tanaro. Fin dagli inizi, ha eletto l’Albero a “idea prima e più semplice di vitalità, di cultura e di scultura” con un ciclo di rara forza poetica e per questo la sua immagine si è imposta come quella dell’uomo che sussura agli alberi, li abbraccia, ne rivela “l’anima” prima di immortalarli per sempre. Un “inviato speciale nella natura” – secondo una felice definizione di Graziella Lonardi, che con gli Incontri internazionali d’arte ne propose il talento nella mostra Vitalità del negativo del 1970 – impegnato in una ricerca capace di riunire i regni vegetale, minerale e animale in opere memorabili. Ma al di là di questa facciata ecologica e quasi bucolica Giuseppe Penone, maestro dell’arte povera e acclamato protagonista della scena contemporanea da quattro decenni, è soprattutto un appassionato esploratore della Materia, tutta la materia, organica o inorganica» (Massimo Di Forti).
• «Comincia la sua ricerca nel 1968. Intreccia tre alberelli in modo tale che crescendo formino un’unica struttura vegetale. Conficca dentro un fusto un cuneo di ferro con i numeri da 1 a 10 o un alfabeto. Così, con la crescita, l’albero porterà dentro di sé questi segni del linguaggio umano. Incastra sempre dentro un tronco un calco metallico della propria mano nell’atto di afferrare qualcosa. Il tronco continuerà a crescere tranne in quel punto, dove il gesto della mano, sempre visibile, verrà progressivamente assorbito. Fa beccare dagli uccelli un grande pane dentro al quale sono state introdotte alcune lettere dell’alfabeto in ferro: sono gli uccelli con la loro azione a far apparire gli elementi della scrittura. Già in questi lavori viene definito un fatto fondamentale, vale a dire che il vero autore delle opere non è tanto l’artista quanto l’energia vegetale o animale che reagisce all’intervento umano. Nelle Patate (1977) e nelle Zucche (1978-79) vediamo un certo numero di questi ortaggi, che hanno preso l’aspetto di un orecchio, della bocca, del volto dell’artista, essendo state fatte crescere dentro matrici calcate su queste parti del corpo dell’artista. Per trasformarle in sculture queste forme stravaganti dei vegetali sono state fuse in bronzo. In altri lavori, l’intezione di Penone è quella di visualizzare la soglia fra la superficie del proprio corpo e lo spazio reale. È il caso per esempio della serie di calchi in gesso di parti del corpo, come il torace o il piede, su cui viene proiettata (con una diapositiva) la foto a colori della stessa parte del corpo, con perfetta coincidenza, in modo da rivitalizzare virtualmente il freddo e bianco corpo di gesso. Di una stanza intera le cui pareti sono ricoperte da uno spesso strato di foglie di alloro fissate dentro reti metalliche: si tratta di una sorta di cripta naturale, immersa in una penombra profumata, dove al centro del muro più ampio c’è il calco di bronzo dorato di due polmoni. L’effetto complessivo è di straordinaria suggestione con valenze allo stesso tempo classiche e mitiche, e surreali. In qualche modo connesse a questa dimensione estetica di ispirazione mitologica sono anche le sculture intitolate Pelle di foglie (2000) dove moltissime foglie (fuse in bronzo) unite insieme costituiscono la “pelle” di una forma umana, completamente vuota dentro. Tra gli altri grandi lavori grandi “unghie” in vetro, e le sequenze di tele ricoperte di spine di acacia accostate a lastre di marmo scavate in modo da far emergere la microgeografia delle venature interne. Pelle di cedro (2003), che non è altro se non il calco della corteccia del cedro di Versailles realizzato con una grande striscia di vera pelle conciata di vacca» (Francesco Poli).
• «La campagna richiede pragmatismo per essere vissuta giorno per giorno. In cambio regala libertà. Conoscevo la montagna, i fiumi, la terra e ho pensato che sarebbe stato meglio usare ciò che la natura mi offriva. Sapevo che, perché tutto avesse un senso, dovevo mostrarlo fuori, in città. L’interesse per le mie sculture stava nella “delocazione”, cioè dal mostrarle al di fuori del loro ambiente» (a Rachele Ferrario). (Corriere della Sera 25/10/2011)
• Vive e lavora a Torino.