31 maggio 2012
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Biografia di Gino Paoli
• Monfalcone (Gorizia) 23 settembre 1934. Cantante. Autore. «Io appartengo alla categoria degli artisti. Posso essere buono o pessimo, ma sono un artista. E cioè uno che scrive perché ha il bisogno di farlo e lo fa per dare e non per prendere».
• Vita Esordi con La tua mano e La gatta, si fece conoscere nel 1960 quando Mina cantò Il cielo in una stanza (ispirata a Paoli dall’incontro con una prostituta: «Volevo descrivere l’attimo in cui sei a letto con una donna, hai appena fatto l’amore, e nell’aria percepisci una sorta di magia, che non sai da dove arrivi e che svanisce subito. In quel momento capisci che non sei nessuno, ma nella tua anima c’è tutto il mondo. Naturalmente non potevo mettere nel testo il punto centrale della storia – l’atto sessuale. E presi a girarci intorno, raccontando dei rumori della strada, le pareti... un itinerario a spirali, dove trionfava il non detto»). Ha rivelato che l’armonica citata nella canzone è stata ispirata da quella suonata al matrimonio di suo nonno Gino, anarchico che si era fatto convincere in tarda età a recarsi all’altare: «Quella canzone è la celebrazione di un rito, di un officio, di qualcosa di sacro come è fare l’amore. Il riferimento all’armonica ci stava bene».
• «Paoli va a vivere da solo a diciotto anni. Non ama gli studi, a differenza del fratello Guido che diventerà un fisico affermato dopo aver tentato di fare il musicista. Gino vuole fare il pittore, un po’ più tardi trova lavoro come grafico. Ma ha amici come lui che vogliono esprimere le proprie idee e che ha un certo punto scelgono il linguaggio della musica: Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, i fratelli Gian Piero e Gianfranco Reverberi. E saranno proprio quest’ultimi a portare Paoli a Milano per una audizione alla Ricordi. Con la direzione artistica di Nanni Ricordi, Gino realizza i primi 45 giri nel 1959 (Non occupatemi il telefono, Senza parole, Sassi). Non hanno grande riscontro. Il paroliere Mogol gli fa da prestanome perché Paoli non è ancora iscritto alla Siae, la Società degli autori. La svolta arriva quando Mina decide di interpretare quel capolavoro che è Il cielo in una stanza. È così ottiene la prima rivincita, dopo che in molti gli avevano detto che le sue non erano canzoni» [dal sito www.ginopaoli.it]. Seguirono successi come Senza fine (cantata dalla Vanoni), Anche se, Me in tutto il mondo, Che cosa c’è fino all’enorme popolarità nel 1963 con Sapore di sale (musica di Ennio Morricone). Dopo la svolta autoriale (tra gli album: Amare per vivere, I semafori rossi non sono Dio, Ha tutte le carte in regola), ritorna al successo di pubblico con Una lunga storia d’amore (1984) e Matto come un gatto (1991) che contiene la canzone Quattro amici, con cui vinse il Festivalbar. Numerose partecipazioni al Festival di Sanremo (1961, 1964, 1966, 1989, 2002 e 2013 come ospite insieme a Danilo Rea), paroliere di Claudio Villa, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Franco Battiato, Marco Masini, Zucchero ecc. Del 2004 l’album Ti ricordi? No, non mi ricordo con Ornella Vanoni e un tour di grande successo.
• «Mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’Accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io ho vissuto i primi mesi a Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata» (da un’intervista di Aldo Cazzullo).
• «Il mio sogno? Trasformare la storica residenza della mia famiglia monfalconese, in via Roma 40, in una Casa della musica. Strappare quell’edificio al degrado e all’abbandono e farne un luogo di cultura per tutti. Potrei fare da testimonial e promuoverla in giro per l’Italia, perché io, Monfalcone, me la porto dentro sempre, da tutta la vita».
• «Vivevamo in un villaggio di pescatori, a Genova. Io, mia moglie, gli animali (...) Potrei raccontarne tante, delle storie di Vicolo Macelli. Conobbi uno straordinario chitarrista: si chiamava Bucco, era sempre ubriaco. Un giorno venne a Genova Segovia e fu il maestro a dire all’avvinazzato: “Sei tu a dovermi insegnare qualcosa”. Quando, anni più tardi, aprii un casinò-ristorante a Levanto, volli Bucco con me».
• «Mi ricordo bene la mia prima apparizione in pubblico, alla Sei giorni della canzone, nell’aprile 1960: un centinaio di cantanti allo sbaraglio sul palcoscenico del Teatro Lirico di Milano. Funzionava così: le case discografiche potevano acquistare un tot di biglietti d’ingresso, che servivano anche come schede per votare i cantanti in gara. In pratica, si compravano una fetta di pubblico. Chi saliva sul palco aveva 200 persone che tifavano per lui e le altre 1600 contro. Era così per tutti: un massacro. E non importava nulla chi fosse il più bravo. Il pubblico di quegli anni era tremendo, volavano battute perfide. Il povero Edoardo Vianello cantava “chi sono, chi sono, chi sono...” e dalla platea un boato gli rispondeva: “Uno stronzo”» (a Laura Ballio).
• «Occhiali scuri e quadrati, capelli corti pettinati avaramente all’indietro, nessuna condiscendenza verso il pubblico, nessun sorriso, nessuna moina, come gl’imponeva quel suo stile asciutto, tirato via da certe reminescenze dell’esistenzialismo di Sartre. Sapore di sale fu all’improvviso la sua canzone più venduta, la più cantata, la più popolare in assoluto: come se niente fino ad allora avesse rappresentato con tanta dolorosa dolcezza il tema delle vacanze» (Marinella Venegoni).
• «Era, quella, un’epoca di Shangri-La, i famosi Sessanta dove stavano tutti bene. Ah, un’estate così spensierata non ci sarebbe mai più stata, da allora si tornò sempre a casa, dopo le vacanze, preoccupati per il futuro. Per me, quel successo ha significato diventare un divo vero, con le ragazzine che mi strappavano i vestiti. Giuro che per un po’ mi sono sentito chissà chi: perché è vero che si diventa stronzi, con un successo così; ci si crede al centro dell’universo. Però poi, per fortuna, il mio innato senso di autocritica mi ha tirato fuori da quella trappola. Avevo già scritto Il cielo in una stanza e tante altre canzoni che andavano forte; ma quello... quello fu un successo di popolo. Sapore di sale poi era vista come una canzone spensierata mentre spensierata non lo era per niente; è la stessa cosa che successe più tardi con Quattro amici, una canzone amara, che contestava il concetto di gioventù intesa come categoria, mentre la gioventù è soltanto una stagione passeggera. Poi, Sapore di sale era un flash, un lampo di luce, uno stacco dalla realtà come dovrebbe essere una vacanza, che significa un allontanamento temporaneo dalle abitudini consolidate: che invece è una cosa che non si fa più, perché oggi vedi quei commendatori a Santa Margherita che parlano di affari al telefonino come se fossero a Milano. Non è certo un caso se fu scritta a Capo d’Orlando, in una casa deserta vicino a una spiaggia deserta. Un posto splendido, lontano dal mondo. Avevo fatto una serata con il mio gruppo nell’unico locale del luogo; e lì i baroni Miglio, siciliani, proprietari del locale, ci avevano invitati a fermarci 15 giorni portando le nostre famiglie. Sono cose lontane, munificenze d’antiche cortesie sicule».
• All’apice del successo, il 13 luglio 1963 tentò il suicidio: «Mi sparai al petto con una Derringer perché avevo tutto e non sentivo più niente. Donne, motori, applausi, ali di folla ovunque mettessi piede. Volevo un razzo per schizzare sul sole e scaldarmi di nuovo. Un dolore! Una pallottola è minuscola ma fa un male gigantesco». Il chirurgo decise che estrarla sarebbe stato inutilmente pericoloso, l’ha ancora in petto, «nella regione parasternale destra».
• Dopo il 1968, in tempi di canzone politica, vive un momento di oblio. Si ritira a Levanto, dove fa l’oste e invita gli amici a suonare nel suo locale. «Le case discografiche gli proponevano di incidere solo i vecchi successi degli anni Sessanta e Paoli rifiutò per orgoglio, convinzione e perché sapeva che alla lunga avrebbe vinto lui. C’è stato infine il primo grande ritorno, in una serata al Pincio, a Roma, nel 1975 come ospite d’onore della festa dei giovani comunisti organizzata da Gianni Borgna, Goffredo Bettini e Walter Veltroni. Poi in una esibizione con Ornella Vanoni al Festival dell’Unità di Roma del 1984, a cui seguirono una fortunatissima tournée e un disco da collezionisti (Insieme). Gino cantò qualche pezzo con la Vanoni, poi prese il microfono da solo e disse: “Ho dei pezzi nuovi che non mi fanno incidere. Ve ne canto due”. Erano: Averti addosso e Una lunga storia d’amore [www.ginopaoli.it].
• Svolta in chiave jazz con l’album Milestones (con Danilo Rea, Rosario Bonaccorso, Roberto Gatto, Flavio Boltro) per la mitica etichetta Blue Note: «Amicizia e divertimento, questa è la vera musica. Io e gli altri di Genova (Tenco, Lauzi) siamo nati col jazz, la musica magica che usciva dai carri armati americani». È seguito nel 2011 un secondo album con lo stesso quintetto: Un incontro in jazz. Da ultimo ha pubblicato Senza Fine (2009), Storie (2009), Due come noi che… e Napoli con amore (insieme a Danilo Rea, 2011 e 2013). A proposito di Senza Fine – in cui ha duettato con Carla Bruni – ha sostenuto che la ex première dame sia stata meglio di Mina nel reinterpretare Il cielo in una stanza: «Meglio Carla Bruni, perché Mina canta Il Cielo in una stanza e l’elenco telefonico allo stesso modo, non so se sa quello che canta oppure no. Canta come se fosse uno straordinario strumento tecnico, come un flauto o una chitarra».
• Da maggio 2013 è presidente della Siae. Dopo pochi mesi dura polemica con il gruppo che gestisce il Teatro Valle di Roma (occupato dal 2011 da un collettivo di intellettuali e artisti), per il mancato pagamento, tra l’altro, dei diritti Siae. «Mi ricordano – dice riferendosi agli occupanti – i “figli di papà” di Valle Giulia che, in nome del popolo, picchiavano i poliziotti, ossia i veri figli del popolo”». Il Teatro Valle «gode di vantaggi arroganti perché non rispetta le regole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna misura di sicurezza per autori, tecnici e spettatori» (a Paolo Giordano). Si è dimesso il 24 febbraio 2015, in seguito ad accuse di presunta evasione fiscale.
• Il 20 febbraio 2015 viene indagato dalla Procura di Genova per evasione fiscale: «I finanzieri sono convinti che abbia nascosto in Svizzera 2 milioni, somma che non sa più come fare a riportare in Italia. Quei soldi, confidava in precedenza a un commercialista intercettato a Genova nell’inchiesta su Banca Carige, sarebbero il provento dei guadagni in nero per le esibizioni ad alcune Feste dell’Unità: l’artista risulta ora indagato per evasione fiscale con la moglie Paola Penzo e due consulenti Andrea Vallebuona e Alfredo Averna. La polizia tributaria ha perquisito la villa del cantante, nel Quartiere Azzurro, e la sede di tre imprese riconducibili a lui e al suo nucleo familiare. L’accusa è di aver depositato in un istituto di credito elvetico milioni percepiti sottobanco, e di aver evitato così di versarne al Fisco 800 mila euro: le somme sarebbero state portate al di là del confine nel 2008, mentre l’artista deve rispondere pure di “dichiarazione infedele” dei redditi per il 2009» (Marco Grasso e Matteo Indice) [Sta 20/2/2015]. La questione si è conclusa dopo circa un anno con l’archiviazione: «Lo scorso aprile (2016 – ndr) Paoli iniziò a trattare con l’agenzia delle Entrate per chiudere la “pratica” con un versamento da 800 mila euro, l’equivalente di ciò che avrebbe dovuto alla collettività, ovvero a noi. Ma non servirà neppure questo, la pendenza sarà parecchio ridimensionata. Già, perché il sostituto procuratore di Genova, Silvio Franz, ha chiesto il proscioglimento di mister Questione di sopravvivenza. Cioè, i milioni in Svizzera c’erano davvero, questo è certo come il Sapore di sale, ed è altrettanto certo che parte di quei denari provenissero dalle feste di partito. Ma siccome non si può stabilire con assoluta certezza quando quel tesoretto fu prima accumulato e poi esportato nei Cantoni, contro il cantore Paoli non si può procedere. Chi ha seguito la vicenda sa che il paroliere de La Gatta, assistito dall’avvocato Andrea Vernazza, si è difeso bene. Con abilità e costrutto. Le premesse, per lui, non erano affatto delle migliori: fu intercettato mentre si confessava con un commercialista genovese, Andrea Vallebuona, che da lì a poco sarebbe finito in cella per altri malaffari. Al commercialista, Paoli disse chiaro e tondo: “Vorrei riportare in Italia dalla Svizzera due milioni, perlopiù ricevuti in nero alle feste dell’Unità”. “Non voglio si sappia che ho portato soldi all’estero. Sono un personaggio pubblico, non posso rischiare questo. Ho un’immagine da difendere…”. In quel colloquio fece riferimento in modo generico “al 2008”. Non sapeva che il commercialista – al tempo consulente di Banca Carige e invischiato in un’inchiesta su una serie di compravendite immobiliari tra Italia e Svizzera – era “infestato” dalle cimici degli investigatori. Alla chiacchierata con Vallebuona che diede il là al caso era presente anche Paola Penzo, la moglie di Paoli. In mano reggeva le carte dei vecchi pagamenti in nero, e disse: “Queste le nascondiamo in un luogo sicuro”. Il commercialista la tranquillizzò: “Vedremo di trovare il modo”. C’era ciccia a sufficienza per un avviso di garanzia, che fu notificato il 19 febbraio 2015. Paoli, travolto dalla vicenda, annullò qualche concerto, si dimise dalla Siae, incassò la difesa dell’amico Beppe Grillo (difesa che fece saltare la mosca al naso al popolo delle Cinque Stelle) ed iniziò a pensare a come uscirne. Il cantautore spiegò che alla Festa dell’Unità così fan tutti, “è un sistema diffuso”, e precisò che non era lui a gestire “in prima persona” le quisquiglie finanziarie. Dimostrò poi di aver effettuato parecchie operazioni sul conto elvetico ben prima del 2008: impossibile, dunque, fissare proprio in quell’anno la “dichiarazione infedele”. E il 2008 è il termine ultimo affinché non intervenga il non luogo a procedere, la prescrizione chiesta dal pm e che a breve, con certezza quasi assoluta, verrà cristallizzata» (Andrea Tempestini) [Lib 1/8/2016].
• Durante un concerto alla Bussola richiamò il pubblico distratto con un «borghesi di merda».
• «Sono stato un grande bevitore per 20 anni. Poi ho avuto la fortuna di riuscire a smettere, mentre mio fratello non ha smesso ed è morto».
• «Credo di essere stato un bravo pittore».
• «L’Ungaretti della canzone italiana» (Gianni Borgna).
• «Oggi nessuno legge più. Sono convinto che la poesia debba essere divulgata e che la canzone può mettersi al servizio della poesia. Allora sì che il collegamento poesia e canzone diventa un fatto generoso e bello. Per esempio, accosterei la mia Sassi con La casa dei doganieri di Montale. Con Leopardi mi sentirei più imbarazzato».
• Politica Dall’87 al 1992 fu in Parlamento nelle file del Pci (ma tra gli indipendenti di sinistra): «Mi convinsero Occhetto, D’Alema e Angius. Mi dissero che bisognava mobilitare tutte le energie migliori per cambiare questo Paese. E io, ingenuo, accettai».
• Poi assessore comunale alla Cultura ad Arenzano: «Altro errore. Mi ci portò mio cognato. Capii subito che si riproducevano gli stessi meccanismi della politica nazionale. Ricordo che nel 1992, con Enzo Majorca mi sono immerso per esplorare la nave Haven, una superpetroliera che era affondata al largo di Arenzano. Era ancora piena di nafta, petrolio nero dell’Iran. Denunciammo tutto. Il Comune di Arenzano mi accusò di voler rovinare l’immagine del paese... Li mandai a cagare».
• Alla nascita del Pd, si mostrò scettico su Veltroni: «Lo conosco sin da quando era ragazzino e veniva con i compagni della Fgci alle feste dell’Unità. Gli voglio bene ed è una cara persona. Facciamo così, come amico scelgo lui. Ma come segretario non c’è dubbio: Bersani». Nel 2007 appoggiò il candidato sindaco della Cdl Enrico Musso (poi sconfitto da Marta Vincenzi): «Chissenefrega della destra e della sinistra, io guardo le persone». E poi: «Io continuo a definirmi di sinistra. Ma una sinistra che non è più quella di governo né tantomeno quella estrema che si ritrova in strada. Io sono per una sinistra legale, una sinistra – come dire? – alla Cofferati. Quando mi chiedono che cosa spero per l’Italia rispondo sempre: ha da veni’ Cofferati».
• Nel settembre 2007 cantò nella villa di Montezemolo a Capri alla festa per i 60 anni dell’allora presidente di Confindustria.
• «In Italia ci manca il senso dello Stato. Lo capisci ai giardini. Quelli condominiali sono curati, quelli pubblici li riducono da schifo».
• Genovesi Una lunga amicizia con Tenco poi rotta per colpa di una donna: «Io e Luigi non ne rivelammo mai il nome (Lauzi svelò in seguito che era Stefania Sandrelli – ndr), ci facevamo gli affari nostri, era un bello scontro di capocce. Chi parla di “scuola genovese” dice cazzate: eravamo quattro o cinque individualisti assoluti, bisticciammo tutta la vita (...) Luigi era per me come un fratello minore, sapevamo tutto l’uno dell’altro. Il mio rimorso è che senza questo litigio sarei stato accanto a lui la sera in cui si è sparato, e forse sarei riuscito ad impedirglielo (...) Il giorno che mi sparai, Tenco restò tre giorni di seguito fuori della stanza d’ospedale. Scrollava il capo e diceva: “Perché? Io non lo farei mai”. E invece». «Quella sera al Festival di Sanremo era completamente fuori. L’ho visto già quando cantava. Pochi mesi prima era andato a fare un giro in Svezia, e scoprì la strategia degli svedesi per andare fuori di testa: invece di bere una bottiglia di whisky, prendevano un sonnifero, il Pronox, e dopo un solo bicchiere. Alla fine ti stordiva e arrivavi a guardarti come se tu fossi fuori da te, come se vivessi una recita (…). Credo che Tenco quella sera fosse sotto l’effetto di quel miscuglio, non penso volesse realmente togliersi la vita».
• Bruno Lauzi: «Diceva: “Quando fanno sesso i cantautori non sanno dove mettere la chitarra”. Bruno era un uomo di straordinaria ironia. Ha saputo sdrammatizzare fino all’ultimo la sua malattia e tutti i suoi casini». «Quando Lauzi sostiene d’essere stato dimenticato dal Premio Tenco perché vota a destra dice la verità. Prova ne è che litigai con gli organizzatori perché non volevano saperne di dare il premio alla carriera a Charles Trenet. Mi dissero che era impossibile perché Trenet aveva sostenuto il governo di Vichy. Eppure lui era e resterà il numero uno del cantautorato, il massimo assoluto per parole e musica. Meglio di Brassens e di Cole Porter. È come non leggere Viaggio al termine della notte di Céline perché era fascista. A me che uno sia comunista o musulmano della jihad non importa: mi interessa l’opera».
• Fabrizio De André: «Era affetto da timor panico, aveva accettato di salire sul palco solo per debiti. La sua corda interna era quella della poesia, non amava la propria voce».
• Paolo Villaggio: «È un contaballe mostruoso, come Dalla».
• Amori È sposato con Paola Penzo, dalla quale ha avuto i figli Nicolò (1981) e Tommaso (1992). Il primogenito Giovanni (1964, giornalista) è nato dal primo matrimonio con Anna Maria Fabbri. Nello stesso periodo una relazione che fece scandalo con Stefania Sandrelli («Mi venne un colpo quando, dopo, mi confessò che aveva appena sedici anni») da cui è nata Amanda (1964). Un’altra con Ornella Vanoni, per la quale scrisse alcune delle sue canzoni d’amore più famose (Senza fine, Che cosa c’è ecc.): insieme pubblicarono poi il libro Noi due, una lunga storia (Mondadori 2004). Lei si disse dispiaciuta di non aver avuto un figlio insieme: «Una tenera curiosità mi è rimasta dentro: come sarebbe stato il pargolo di una donna dalle mani senza fine e di un uomo che vede il cielo in una stanza?». Con Mina «solo amicizia. Anzi, in un primo momento andavamo d’amore e d’accordo, poi ci accapigliavamo. Niente sesso. Anche se non mi sarebbe dispiaciuto. A quel tempo era una grande gnocca» (a Stefano Manucci).
• «Meno male che con Gino Paoli mi sono tolta tutti i grilli che potevo avere per la testa. La nostra è stata una grande passione. Sono riuscita a mantenere un buon rapporto con lui tra alti e bassi. Ma all’inizio con Gino, quando ci siamo lasciati, non è stato affatto facile. Ora, invece, andiamo molto d’accordo. Amo i suoi figli, sono amica della moglie. La grande passione che mi ha legato a lui mezzo secolo fa si è trasformata nell’ammirazione sconfinata per il suo talento» (Stefania Sandrelli a Grazia).