31 maggio 2012
Tags : Mimmo Jodice
Biografia di Mimmo Jodice
• Napoli 24 marzo 1934. Fotografo. Dal 1970 al 1996 insegnò all’Accademia di Belle Arti della sua città. Tra i suoi libri: Pompei (Contrasto 2010), Light (Damiani 2005), Città visibili (Charta 2006). «Una scomposta massa di ciechi, ecco cosa siamo. Se dovessimo dare una definizione dello sguardo contemporaneo, descrivere l’attenzione verso quello che ci circonda, dovremmo concludere che la nostra è una società avvolta nel buio, dove il vedere, e quindi il capire, appare come un qualcosa che non ci appartiene più».
• Riconoscimenti: laurea honoris causa in Architettura; premio per la cultura dell’Accademia dei Lincei; cittadinanza onoraria di Boston; Cavaliere dell’Ordine delle arti e lettere in Francia.
• «La fotografia è entrata nella mia vita per caso, quasi fosse stato un destino segnato: allora disegnavo, mi infilavo clandestinamente nelle stanze dell’Accademia per rubare qualche segreto sulla pittura, non pensavo alla fotografia. Poi un mio caro amico morì e il padre mi regalò il suo ingranditore. Tutto cominciò così, con una scatola di cartone con dentro un Durst 609. Non avevo la macchina fotografica, così le immagini me le inventavo in camera oscura, mettendo nei portanegativi pezzi di stoffa, cartoncini, foglie, di tutto. Era una fotografia sperimentale. Eravamo a cavallo tra gli anni 50 e i 60: c’erano straordinarie onde di rinnovamento, avevamo alle spalle il Neorealismo, vedevamo il primo Rauschenberg, il Living Theatre, leggevamo Ginsberg. Tutta la creatività, tutti gli atteggiamenti stavano cambiando. Mi sono trovato con questo ingranditore per le mani in un momento storico straordinario. E allora ho cominciato a fare quello che fino ad allora in camera oscura era proibito. Semplicemente scardinavo le regole per approdare a una mia identità ma sempre con la convinzione che la fotografia non si poteva tenere fuori dall’arte» (Gianluigi Colin).
• «La sua è una fotografia che invita a riflettere, a pensare sulle condizioni della nostra esistenza e creare così una vera “coscienza del vedere”. Immagini interiori, immagini della mente che nascono attraverso un processo di pulitura, di sottrazione, di assoluto rigore. Jodice con le sue fotografie (mosse in fase di stampa e per questo con un perpetuo movimento interno) ci accompagna dentro il suo sogno» (Gianluigi Colin).
• «La mia fotografia non ha niente a che vedere con il fissare l’attimo fuggente. Nel mio lavoro ci sono tre fasi: la progettazione che comporta una lunga riflessione, la realizzazione che mi spinge a cercare diversi itinerari e infine la stampa in cui vengono accentuati tutti quei simboli che ho trovato» (a Lea Mattarella).
• «“Se mi riconosco un merito non è tanto quello di aver fatto buone foto ma di avere contribuito allo sdoganamento di una forma d’espressione che a lungo non è stata considerata vera arte. Mi sono formato in un’epoca interessantissima. Negli anni Sessanta tutti sperimentavano. E anch’io lo facevo. È così che ho imparato. Faccio ancora tutto da me, sa? Scatto, provo, stampo. Un vero fotografo è anche un artigiano” (…) Perché sempre il bianco e nero? “Il colore è troppo descrittivo. E comunque in un’epoca dove c’è di tutto e di più io cerco di fare di niente e di meno. Dobbiamo recuperare una certa civiltà dello sguardo. Il mio compito è levare, semplificare. In fondo aspiro al vuoto”». (Marco Di Capua).
• «“Negli anni Settanta, Napoli era un crocevia straordinario per l’arte. Ho collaborato molto con le gallerie d’avanguardia (Amelio, Lia Rumma) e ovviamente ho incontrato molti artisti che portavo nel mio studio, tra questi anche Beuys. Vedendo le foto di Gibellina distrutta dal terremoto, Beuys rimane sconvolto. Così, dopo aver chiamato il sindaco Ludovico Corrao partiamo verso quella città fantasma. Siamo stati insieme per un’intera giornata. Noi due, da soli, di fronte a quell’immagine di morte diventata simbolo di un infinito olocausto che la cronaca tragicamente ci impone”. Jodice viaggia sulle strade del tempo pensando a vecchi amici: “Accompagnavo Warhol a fare i ritratti alla grande borghesia. Aveva una polaroid mai vista prima, con il teleobiettivo. Sviluppava l’immagine mettendo la foto sotto l’ascella, era rapido, timido, poi mandava tutto alla sua Factory. Ne nacque un’amicizia: mi regalò la macchina fotografica, firmandola. La prima mostra in Italia di Mapplethorpe fu fatta a Napoli: era minuto, garbato, silenzioso, dolce. Un vero contrasto con la potenza provocatoria delle sue immagini”» (Gianluigi Colin).
• «Abbiamo vissuto una stagione irripetibile, piena di energia e sperimentazione. Fa una certa tristezza oggi trovarsi di fronte a molti autori che cadono nella banalità della ripetizione, nell’omologazione. Certo, è difficile: i giovani si trovano in una dimensione di affollamento. Io vivevo una situazione nella quale la fotografia non veniva accettata, ora accade il contrario: tutti vogliono la fotografia, trovare nuove idee e nuovi percorsi è davvero complicato» (Gianluigi Colin).
• Sposato con Angela Salomone, tre figli.