31 maggio 2012
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Biografia di Enzo Jannacci
• (Vincenzo) Milano 3 giugno 1935 – Milano 29 marzo 2013. Cantante. Autore. Attore. Chirurgo. «Sono sempre stato scomodo, anche per la medicina».
• Suo più grande successo Vengo anch’io. No, tu no (1967). Altri brani celebri: L’Armando e El portava i scarp del tenis (1964), Quelli che... (1975), Ci vuole orecchio (1980), Se me lo dicevi prima (1989). Tra i film L’udienza (Ferreri, 1971). «Guardi, io mi definisco un medico fantasista, c’è scritto anche sulla carta d’identità». In teatro, celebre messa in scena, nel ’90, di Aspettando Godot di Beckett. L’altro clochard era Giorgio Gaber.
• Padre aviatore di origini pugliesi («un napoli, si diceva all’Ortica») ma nato a San Fermo della Battaglia (Como): «Poteva diventare generale e invece è morto maresciallo per star vicino ai suoi uomini. Io ho fatto il medico perché mio padre voleva che imparassi cosa è la sofferenza e a stare vicino alla gente»; madre monzese, figlia di lavandaia, «ma forse figlia illegittima di un pezzo grosso, addirittura un conte».
• «Io fino a 17 anni ero piccolo e disperato. Ero alto 1,60 ma avevo piedi grandi così. Il 43. Quella inadeguatezza dei piedi si ripercuoteva sul cervello. Non ero mica giusto. A scuola ero inqualificabile. Allora imparavo tutto a memoria. Di greco so ancora l’aoristo di esthio».
• «La gavetta è stata lunga: suo padre lavorava all’aeroporto Forlanini, quello citato in El portava i scarp del tenis, e in casa Jannacci negli anni Cinquanta di soldi ne circolano pochi. Il giovane Enzo studia e lavora. Suona jazz nei locali della “Milano che cambia” e, nel ’56, diventa il tastierista dei Rocky Mountains che si esibiscono al Santa Tecla, il tempio cittadino del rock’n’roll, dove la voce è Tony Dallara, presto sostituito da Giorgio Gaber con cui formerà I corsari. Tempi di musica e di cabaret e di lavoro duro in ospedale per Jannacci, ormai diventato dottore. Tempi di successi e di rifiuti. Di esaltazioni e di delusioni».
• «Aveva cominciato, nel 1959, al Santa Tecla, ma era arrivato quasi subito al Derby. E vi portò il suo stile singolarissimo. Non era un urlatore, non era un rockettaro, non era propriamente nemmeno un cantautore, alla Paoli o alla Tenco. Faceva un cabaret musicale stralunato, strampalato, paradossale, surreale. Unico. Inimitabile. Anche perchè stralunata era la sua antropologia, la sua faccia, il suo corpo che si muoveva a scatti, schizofrenico. Cantava storie minime di gente minima, storie disperate venate di ironia, con punte di esilarante comicità. Ma ironico o comico che fosse c’era sempre in Jannacci un sottostrato di profonda malinconia che io credo sia stata la cifra più autentica della sua arte» (Massimo Fini).
• «Al Derby ero arrivato all’inizio dei Sessanta, per due motivi, per fame e per Dario Fo. Che c’entra Fo? Io fino a quel momento non ero nessuno. Sì, avevo fatto qualcosina con Giorgio Gaber, ma ero l’ultimo arrivato e c’erano in giro cantautori come Bindi, e poi Sergio Endrigo, gli altri... Un giorno ero a Roma, a registrare alla Ricordi, e Dario lì a sentirmi. “Vieni a casa mia”, mi dice poi. Una volta lì mi fece ascoltare La luna è una lampadina, Il foruncolo, canzoni che poi misi nel Milanin Milanon. E lì iniziò una bella collaborazione. Insomma fu Dario che mi spinse sulla strada che poi tutti conoscono. Mi ha insegnato tutto. Io ero pazzo, è vero, come diceva Gaber, ma mica scemo. Sapevo imparare. Scrivemmo insieme canzoni come Ho visto un re, L’Armando, Il primo furto non si scorda mai, che poi erano storie disperate in musica, cabaret appunto, già attraversato da una vena satirica che è stata poi una delle caratteristiche della comicità milanese di quegli anni. Studiavo Medicina e dovevo mantenermi agli studi. Suonavo il pianoforte, facevo concertini nelle fabbriche o in piccoli locali. Al Derby all’epoca c’era Enrico Intra che invitava un mucchio di bei musicisti, ma a notte fonda lasciava posto anche ai giovani. Il Derby era così, si stava insieme, celebrità e sconosciuti. È lì che ho sentito El portava i scarp del tenis suonata dal Modern Jazz Quartett. Tanti di quei giovani ne ho portati io. Cochi e Renato li avevo visti al Club 64 di Tinin Mantegazza, altro cabaret milanese anche se più politico, più intellettuale. Cochi cantava canzoni popolari e Renato faceva da spalla. Li portai con me. Da Torino chiamai anche Felice Andreasi e poi Lino Toffolo, che era il più bravo» (ad Anna Bandettini).
• Coi Rock Boys (Adriano Celentano voce, Giorgio Gaber alla chitarra, lui al pianoforte e alla chitarra, Luigi Tenco al sax) si esibì in Germania, al posto di Elvis Presley.
• «Enzo Jannacci racconta di un’umanità cialtrona, dolente, rassegnata, folle, egoista, generosa e distratta. Le sue canzoni sono umanità in movimento, popolate da esseri così poco interessanti per il prossimo da parere nissun, dei nulla con gli occhi impastati di cemento, traffico, fatica e lacrime che vivono e muoiono contromano. Non sono grandi malfattori, ma pali guerci di bande di ladri improvvisati, sono mariti che si accorgono che gli affanni per le rate di questo e di quello hanno ucciso l’amore. Non sono grandi eroi, ma uomini che sanno morire con dignità allungando il passo. Sono i protagonisti di storie minime, sono persone e non personaggi che raccontano tutta la loro vita in un lampo, nel tempo di una canzone (...) Enzo Jannacci è un artista che con la chiave dell’assurdo e del nonsenso svela, con levità e apparente svagatezza, la fatica del quotidiano, la crudezza di vite vissute solo con gli abiti di tutti i giorni ma con una voglia, talvolta irrefrenabile, di fantasia. Il suo è un coinvolgente recitare cantando e cantare recitando, tra guizzi surreali di pensieri che si attorcigliano su loro stessi, tra pause che solo lui può permettersi e che vanno a comporre un senso di smarrita verità. La verità di Sei minuti all’alba per ricordare, senza retorica e con dolcezza, chi è morto per la libertà. La verità del gioco, della beffa, del guardare questa povera società piena di facili ricchi, “ricch” e non “sciuri”, con amara consapevolezza ma con la forza di chi vuole continuare a farsi beffe di tutti “quelli che...” e lo sa fare con quella impalpabile naturalezza che è dei grandi artisti» (Magda Poli).
• «Il Vaticano, certa Dc non mi hanno mai sopportato. Mi lasciavano cantare Vengo anch’io. No, tu no perché era tranquilla e infatti con quella canzone ho fatto il botto. Ma se cantavo cose come La costruzione sulle morti sul lavoro o Sei minuti all’alba che parla di Resistenza, mi tenevano lontano dalla tv».
• «Mettiamola così: Jannacci non ha mai rifatto il verso a nessuno e nessuno ha mai imitato Jannacci. E già questo lo isola. Può cantare canzoni di altri (da Fo a Chico Buarque, da Conte a Fortini) e altri possono cantare canzoni sue (da Tenco a Milva, da Mina a Lauzi), ma resta un isolato» (Gianni Mura).
• «Io sono uno che deve andare a braccio, e parlare. Io sono stato fortunato, ho avuto successo, il piacere di quel poco che vuol dire questa parola, e allora sono obbligato ad andare avanti. L´ho fatto volentieri perché... perché no? Per le cose che dico, che a me sembrano delle troiate, ma rimangono nella testa delle persone, e quindi vado avanti. Ho imparato (…) Grande è stata la spallata che mi ha dato Dario Fo, se no rimanevo lì come una cipolla».
• Sposato con Giuliana Orefice, un figlio, Paolo (Milano 5 gennaio 1972), pianista, compositore, arrangiatore (nel 2008 uscì il suo disco Trio). A fine 2006 l’album The Best, antologia con inediti curata dal figlio.
• Viaggiava su di una Volvo usata, in città girava invece con un Sì della Piaggio. Possedeva anche una Fiat 127 d’epoca.
• Parlava cinque lingue (inglese, francese, tedesco, svedese e un po’ di russo). «Dopo anni da chirurgo, ora studio medicina d’urgenza, una specialità che è sempre utile».
• Aveva la casa di vacanza a Bosco sul Corniglio, piccolo centro della Cisa.
• Milanista. «Ho conosciuto Berlusconi negli anni ’70, mi voleva vendere una casa a Milano 2. Pensai: “Ha una faccia da Milan”».
• «Credo in Dio e non sono ateo». «Amo Gesù, quel signore biondo è la più grande figura storica di sempre. Lui ha detto che “Dio è amore”».
• Ricordi di lui del figlio Paolo: «Papà diceva sempre che non riusciva ad andare in montagna perché gli mancava il tram»; «Le canzoni del papà sono sempre state molto fedeli alla sua linea di pensiero. Era un libero pensatore, diceva quello che gli sembrava più corretto, sempre, anche nel suo lavoro di medico. Credeva che la vita dovesse essere vissuta in un determinato modo e che ci fossero delle cose più o meno sbagliate, più o meno divertenti da dire, e le raccontava, semplicemente».
• Il Comune di Milano gli ha intitolato la casa di accoglienza di viale Ortles.
• È sepolto al Famedio di Milano.