30 maggio 2012
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Biografia di Giovanni Giudici
Le Grazie di Portovenere (La Spezia) 26 giugno 1924 – La Spezia 24 maggio 2011. Poeta.
• «L’abilità metrica e il camaleontismo formale di Giudici non hanno eguali nella sua generazione» (Alfonso Berardinelli). «Scrive poesie come se scrivesse un solo, unico, lungo romanzo. Il protagonista del romanzo è Giudici stesso, nella parte di un uomo comune, che sta in disparte, spesso ingenuo, a volte pauroso, a disagio, imbarazzato. A Giovanni Giudici non è stato dato tutto quello che è di Giudici. A differenza di tanti suoi colleghi (colti, eruditi, tecnicamente preparati) Giudici ha un dono che a un certo punto della storia letteraria recente è parso un vizio vergognoso. Giudici sa scrivere poesie musicali, sa cantare, ha ritmo naturale, talento puro. Però di questo dono non ha mai abusato, a quel suo diletto ha sempre fatto corrispondere un autocastigo. Come diceva Capote, quando Dio ti dà il dono di scrivere ti dà anche una frusta con la quale flagellarti. Questo fa di Giudici il poeta italiano più moderno e antico allo stesso tempo. I suoi versi si ricordano come si ricordano le parole delle canzoni» (Antonio D’Orrico).
• Perse molto presto la madre, Alberta Giuseppina Fortunato: «Avevo tre anni e cinque mesi. Non posso ricordare le reazioni immediate. Ho memoria di un vestito a quadretti, del fatto che andava a scuola, faceva la maestra, e io le chiedevo se mi portava un pezzetto di gesso perché pasticciavo su una piccola lavagna. Siccome insegnava, non stavo molto con lei. L’ho percepita perché vedevo su di me sguardi compassionevoli: questo bambino senza la mamma... Ma non ero diverso dagli altri bambini, facevo le cose che facevano i bambini della mia età. Poi ho avuto una matrigna che è stata buonissima. Ho avvertito la sua assenza, quasi dovendomi vergognare di non avere la mamma mentre tutti parlavano della loro. La maestra chiedeva: “Descrivete la vostra mamma”. E io che cazzo descrivevo? Non volevo nemmeno che si sapesse» (a Luigi Vaccari).
• «Io ho sempre lavorato: ho fatto il cronista di bianca, di nera, sono stato il più giovane capocronista di Roma. Di un giornale scassato, si intende. Ho lavorato anche alla Questura di Roma, all’ufficio stampa e dal momento che non c’era poi tanto da fare, ne approfittai per scrivere la tesi di laurea. Sono stato anche direttore di una rivista, “Mondo occidentale”, un po’ filo-atlantica, ma io cercavo di barcamenarmi in modo obiettivo. Poi quando c’è stato qualche funzionario d’ambasciata che voleva indicarmi con insistenza quello che dovevo fare, allora sono andato a Ivrea. In Olivetti venni assunto da Adriano, che era uno che dava a tutti del lei. Non mi aveva preso per fare l’intellettuale dell’azienda, ma per fare un giornale: “Comunità di fabbrica”. Avevo un bel legame con questi operai piemontesi, che mi sentivano come uno di loro. Io in effetti sono un popolano che ha fatto l’università».
• «Si definisce un ligure diseducato a Roma, dove, dopo la “deportazione” in collegio, visse con la nuova famiglia paterna per altri ventitré anni, fino al 56, e poi redento a Milano. Ma nel quadrangolo Liguria-Roma-Milano, poi di nuovo (e definitivamente) Liguria, c’è una sacca temporale trascorsa in Piemonte, lavorando a vario titolo per la Olivetti. Era stato prima nella biblioteca dell’Azienda, a Ivrea, quella sorta di “moderna Atene periclèa”, così la definirà, irta d’intellettuali “adrianèi”, come venivano chiamati i seguaci del patron, l’ingegnere Adriano. Lui, che esordiva allora come poeta, avrebbe ricordato con epigrammatica ironia le serate trascorse all’hotel Dora, il principale della cittadina, “dove s’affacciano a quest’ora/gli uomini di successo”, e il locale circolo del cinema, sulle cui poltrone “educatamente s’attedia/il pubblico di gente intelligente/più della media”. Vi incontra tanti nuovi amici, da Pampaloni a Fortini, da Ludovico Zorzi a Paolo Volponi, ma non si riconosce del tutto nell’ideologia dominante in quella città-fabbrica. E più tardi, sentendosi catalogare come un “olivettiano”, obietterà di considerarsi soltanto “un intellettuale che lavora alla Olivetti”» (Nello Ajello).
• Dalla primavera del 1992, ormai in pensione dalla Olivetti, si trasferì in Liguria dove sarebbe invecchiato.
• «Andrea Zanzotto osservò come il personaggio di Giudici, per quanti abiti mutasse nel corso della giornata e del tempo, era l’impiegato: di questo tipo umano nella società industriale Giudici spiò il grigiore, congetturò la soffocazione. Non per nulla uno dei suoi poemetti più belli e famosi resta Se sia opportuno trasferirsi in campagna, cioè andare via, fuggire (dalla città dove si lavora, dove si è “impiegati”). E non per nulla il padre fu una specie di suo doppio, quel padre specializzato nel nascondersi, nello scantonare dall’esistenza, nel tentativo di sfuggire ai creditori: Il male dei creditori è un altro suo canonico titolo» (Franco Cordelli) [Cds 25.5.2011].
• «Giudici è un poeta senza miti, leggendo il quale a nessuno può venire in mente di mitizzare la poesia e i poeti. Si leggano i suoi versi, che sono probabilmente i più melodici, i più abilmente dissonanti della poesia italiana recente. E si dimentica la poesia-valore, la poesia-mito. Giudici è l’esatto contrario di Pasolini, che instaura incessantemente il mito di se stesso come poeta scrivendo un po’ come viene, sicuro com’è di trovarsi sempre, per natura e per destino, nella grazia della poesia» (Alfonso Berardinelli).
• Nel 2000 Mondadori ha pubblicato I versi della vita (Meridiani) che ne raccoglie l’intera opera poetica Nel 2003 ha pubblicato Vaga lingua strana (Garzanti), raccolta di poesie di grandi autori da lui tradotte, da Tommaso d’Aquino a Milton, Coleridge, Dickinson, Pound, Eliot, Plath e altri.
• Era sposato con Marina Bernardi. Due figli.