30 maggio 2012
Tags : Carlo Ginzburg
Biografia di Carlo Ginzburg
• Torino 15 aprile 1939. Storico. Già all’Università di Bologna, Harvard, Yale, Princeton, Università della California, Los Angeles, dal 2006 cattedra di Storia delle culture europee alla Normale di Pisa.
• «Vengo da una famiglia di intellettuali torinesi, ebrei, antifascisti. È l’ambiente in cui sono cresciuto». Figlio di Leone (1909-1944), uno dei grandi intellettuali antifascisti, fondatore dell’Einaudi, ucciso dai nazisti, e della scrittrice Natalia Ginzburg (nata Levi 1916-1991). Il nonno Giuseppe Levi fu uno scienziato costretto all’esilio dalle leggi razziali.
• «Sono entrato alla Normale di Pisa nel 1957 e ho incontrato Arsenio Frugoni, Delio Cantimori, Arnaldo Momigliano, Augusto Campana, Sebastiano Timpanaro. Pensai: voglio studiare i processi di stregoneria. Andai a guardare la voce “stregoneria” nell’Enciclopedia Treccani, cominciai a studiare (…) Non c’è dubbio che l’impulso verso la ricerca mi sia venuto, inconsciamente, dal rapporto con mio padre, e i suoi saggi di storia e di critica letteraria. E l’impulso a scrivere è nato in me osservando mia madre. Se uno nasce in una casa di ciabattini, finisce col fare il ciabattino (…) Sono convinto che l’idea per cui la narrazione – romanzi, diari, opere letterarie – sarebbe più vera della verità storica sia semplicistica. Quanto all’idea che non sia possibile distinguere rigorosamente tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, penso che sia sbagliata e pericolosa» (a Wlodek Goldkorn) [Esp 25/11/2010].
• Il suo fine come storico è «districare l’intreccio di vero, falso, finto, che è la trama del nostro stare al mondo». Storce il naso davanti all’etichetta di fondatore della microstoria (ricerca che parte dalla descrizione e dall’analisi dell’individuale e delle anomalie, con la possibilità di proporre una diversa gerarchia delle rilevanze: lo storico usa immaginazione, uno sguardo ravvicinato e un approccio multidisciplinare, che rifiuta la consueta opposizione tra cultura alta e bassa, per immergersi in un microuniverso dal quale avere una nuova comprensione della storia: «Sotto la lente del microscopio si può mettere un’ala di libellula, o un pezzetto di pelle d’elefante. È lo sguardo che conta; le domande che facciamo. Io penso che la microstoria ponga sempre, in maniera esplicita o implicita, un problema di generalizzazione. Si parte da un caso circoscritto (tutti i casi, grandi o piccoli, lo sono) per capire qualcosa di più generale. Magari si tratta di un caso anomalo: ma ogni anomalia contiene in sé la norma. Non è vero l’inverso»). Da sempre impegnato nella ricerca metodologica, ha paragonato il suo lavoro a quello dell’investigatore. Tra i suoi libri I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (Einaudi, 1966), Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976), Miti emblemi spie (Einaudi, 1986), Il giudice e lo storico (Einaudi, 1991, sul caso Sofri), Occhiacci di legno (Feltrinelli, 1998), Il filo e le tracce. Vero falso finto (Feltrinelli, 2006), Paura, reverenza, terrore. Rileggere Hobbes oggi (Monte Università Parma, 2008). Collabora con le riviste Past and Present, Annales, Quaderni storici.
• «Non penso certo che la verità sia facile da raggiungere, ma credo che ogni studioso debba fare i conti con il coinvolgimento soggettivo, psicologico, scientifico o di altro genere, e malgrado questo riuscire a raggiungere la verità senza virgolette» (da un’intervista di Angiola Codacci-Pisanelli).
• Nel 1996 lasciò l’Einaudi dopo l’ingresso di Berlusconi: «Non è più quella fondata da mio padre».
• Vincitore del premio Balzan 2010 «per le sue doti eccezionali di immaginazione, rigore scientifico e talento letterario con cui ha recuperato e gettato nuova luce sulle credenze popolari nell’Europa del XV e XVI secolo» (Dino Messina) [Cds 7/9/2010].