30 maggio 2012
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Biografia di Mario Dondero
• Milano 6 maggio 1928 – Petritoli (Fermo) 13 dicembre 2015. Fotografo. «Il colore distrae. Fotografare una guerra a colori mi pare immorale».
• Fece dire a Gianni Berengo Gardin: «L’ho conosciuto, voglio imitarlo. Anche nei vestiti».
• «Uno dei più bravi fotografi italiani del dopoguerra, uno dei fondatori del fotogiornalismo; di più: è un maestro. Il suo modo di fotografare non assomiglia a quello di nessun altro. Possiede uno sguardo unico, caldo e umano, colto e intelligente. Ogni suo scatto è un momento di vita sensibile. Sia nel ritratto di Pasolini, insieme alla madre nella sua casa borghese a Roma, sia nel reportage di guerra o nella foto in un ospedale afgano di un uomo colpito da una mina, le immagini di Dondero possiedono qualcosa di assoluto, di assolutamente relativo. Ha una faccia da chansonnier francese, ricorda Yves Montand; la sua voce è pastosa e suadente. Quando inizia a raccontare, incanta: staresti delle settimane ad ascoltarlo» (Marco Belpoliti).
• «Per i suoi ottant’anni gli amici gli hanno fatto un dono: hanno raccolto le foto degli scrittori che ha fissato nel corso di più di mezzo secolo. C’è di tutto. Ma c’è anche l’immagine che ha fatto il giro del mondo da cui Alain Robbe-Grillet dice sia nato ufficialmente il nouveau roman» (Antonio Gnoli).
• «Stavo facendo, insieme a Giancarlo Marmori, un reportage per L’Illustrazione italiana. Era il 1959. Eravamo all’interno dei locali delle edizioni Minuit e c’erano diversi scrittori che discutevano. A me venne l’idea di portarli fuori e di fotografarli. C’erano, tra gli altri, Claude Simon, Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute, e Samuel Beckett, del quale era nota l’allergia a farsi ritrarre o intervistare. Li feci sistemare in modo che non sembrasse l’istantanea di una squadra di calcio e venne fuori questa foto di gruppo molto particolare. Robbe-Grillet scrisse che quell’immagine era all’origine del nouveau roman, poi seguirono alcune tesi di laurea e io divenni, mio malgrado, il fotografo che aveva immortalato la grande letteratura. Quella immagine mi ha inseguito tutta la vita. Mentre la foto che scattai clandestinamente a Panagulis, durante il processo in Grecia, non ha avuto eguale fortuna».
• Di origini genovesi, «avrebbe dovuto fare il marittimo seguendo le tradizioni familiari. I suoi cugini erano marinai. Si iscrisse al nautico di Camogli e poi invece si ammalò e gli fu consigliato il ginnasio. Nei primi anni Cinquanta si stabilì a Milano. C’erano i quattro punti cardinali: la Scala, il Piccolo, l’Accademia di Brera e il Giamaica. Dondero cominciò a frequentare quest’ultimo. Era un bar e un ritrovo di gente che avrebbe fatto un po’ di storia culturale. Vi conobbe Alfa Castaldi che sarebbe diventato un eccellente fotografo di moda. Si riconobbero dal fazzoletto rosso di partigiano. Al Giamaica si incontravano artisti come Gianfranco Ferroni e Piero Manzoni. Fotografi alle prime armi come Ugo Mulas e perfino il fratello di Antonio Gramsci che giocava a scopa con il Maestro Confalonieri» (Antonio Gnoli) [Rep 14/12/2015].
• A 16 anni, dopo essere stato tra i partigiani nella brigata Cesare Battisti, tornò a Milano per fare il giornalista: collaborazioni a all’Avanti! e all’Unità, poi entrò a Milano sera come cronista di nera. «Avevo capito che per fare quel mestiere bisognava saper fotografare. Allora sono andato in una agenzia fotografica e ho provato a imparare i rudimenti. Filippo Gaia me li ha insegnati, ma la mia università è stata al Jamaica. Giuseppe Trevisani, grafico che aveva lavorato con Vittorini, al Politecnico, e che poi disegnerà la gabbia de il Manifesto, mi aveva proposto di entrare a Le Ore, una rivista di fotogiornalismo. Questo fu il mio passaggio: raccontare con la macchina fotografica e non più con le parole. Il primo servizio lo realizzai durante la rivolta al manicomio criminale di Reggio Emilia. Grazie alla mia esperienza di nera riuscii a introdurmi nell’edificio; avevo imparato a superare la mia timidezza».
• Ha collaborato con le principali testate giornalistiche italiane e straniere, da Epoca a Le Monde, dall’Illustrazione italiana a Le Nouvel Observateur. Alla fine del 1954, per ragioni sentimentali e famigliari, si trasferì a Parigi e ci rimase per trent’anni.
• «Ho sempre avuto un’enorme curiosità per la fotografia in bianco e nero della scuola francese. Life non è mai stata un mio modello, troppo levigata, troppo controllata. Mi interessava la sobrietà feroce della fotografia europea, tedesca, spagnola, ma anche l’ironia dei fotografi africani, così pieni di poesia».
• «Non è che a me le persone interessano per fotografarle, mi interessano perché esistono».
• «La semplicità è il risultato di un percorso, più che un inizio». (a cura di Lauretta Colonnelli).
• «Il mondo della fotografia è sempre stato per Mario una straordinaria scusa per incontrare il mondo e raccontare le mille storie della commedia umana. Non una visione romantica. O almeno, non solo: Mario Dondero ha sempre avuto la stessa idea d’impegno civile dei grandi della storia del reportage come Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, pensando sempre alla fotografia come a quell’esperienza in cui bisogna “mettere sullo stesso asse, occhio, testa e cuore”» (Gianluigi Colin) [Cds 14/12/2015].
• Tifava per il Genoa.
• Aveva come mito Robert Capa: «Il mio impegno nasce solo dall’importanza della fotografia come strumento di assoluta testimonianza», «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono» (Colin, cit.).
• Malato terminale, chiese a medici e infermieri di poter fare un ultimo pasto in trattoria: «E così accadde. Per ben tre volte. Mi dicono che mangiò di gusto e accennò Les Feuilles Mortes – uno dei suoi cavalli di battaglia – una canzone che gli somigliava, prima di farsi riportare nel luogo della sua ultima degenza» (Antonio Gnoli, cit.).
• Aveva una compagna, Laura Strappa.