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 2012  maggio 30 Mercoledì calendario

Biografia di Carlo De Benedetti

• Torino 14 novembre 1934. Ingegnere. Imprenditore. Presidente del gruppo L’Espresso. Ex presidente di Cir (Compagnie industriali riunite).
Ultime Nel 2013, indagato dalla procura di Ivrea per omicidio colposo e lesioni plurime colpose insieme al fratello Franco per episodi di avvelenamento da amianto tra i dipendenti della Olivetti. I fatti sarebbero avvenuti tra gli anni ’70 e gli anni ’90.
Sempre nel 2013, è finito nel registro degli indagati il management della Tirreno Power, società proprietaria della centrale a carbone di Vado Ligure di cui Carlo De Benedetti controlla il 50%. Il reato ipotizzato è di disastro ambientale. Nel 2012, la Commissione tributaria regionale di Roma ha condannato la Cir a una una multa di circa 225 milioni di euro per evasione fiscale. La Cassazione ha sospeso il pagamento, ma si attende la sentenza di merito. Nel 2011 ha costituito la fondazione Tog (Togheter to go) per la riabilitazione dei bambini colpiti da patologie neurologiche, in cui si impegna con tutta la famiglia. Nel 2009 ha lasciato tutte le cariche aziendali ad eccezione della presidenza del gruppo L’Espresso-Repubblica. Nel 2012, il passaggio di consegne è stato completato con la cessione ai figli Rodolfo, Marco e Edoardo del pacchetto di controllo della Cir. Dal 2009 è cittadino svizzero: «Abito a St. Moritz e ho una patente svizzera. Resto anche cittadino italiano. Sono residente fiscalmente in Italia e continuerò a pagare le tasse in Italia».
Vita Figlio di Rodolfo (1892-1991), imprenditore. Esilio in Svizzera nel 1943 per sfuggire alla persecuzione antisemita. Laurea in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino (1956), lavorò in azienda col padre (Compagnia italiana tubi metallici flessibili, poi Gilardini), ne prese la guida nel 1968, nel 1976 fu chiamato alla Fiat come amministratore delegato: «Posi una condizione: vengo ma come azionista: vendo la mia azienda alla Fiat e col ricavato compro il 5% della Casa torinese. Ecco, quello fu l’errore: mi illusi di essere un copadrone». Non passarono neanche quattro mesi (4 maggio-25 agosto 1976) che se ne andò sbattendo la porta.
A lui si deve però il progetto di una nuova automobile spaziosa, robusta ed economica: la futura Panda.
• Lasciata la Fiat, fondò la Cir, trasformando una vecchia conceria in una finanziaria. Quotata in Borsa, la sistemò dentro un’altra sua finanziaria, la Cofide. È uno straordinario giocatore di Borsa (Danilo Taino: «Uno degli investitori europei più brillanti degli ultimi decenni»).
• Entrò in Olivetti nel 1978, proprio nel momento in cui l’azienda stava trasformandosi da meccanica in elettronica. Ad onta di vari accordi internazionali, non riuscì a riportarla agli splendori dei tempi andati (quelli di Adriano Olivetti, morto nel 1960), anzi dovette ristrutturarla e ricapitalizzarla. Nel 1997 (31 luglio) lasciò che Colaninno se la prendesse. Gli avversari lo accusano di aver speculato lungamente al ribasso sul titolo, adoperandosi in prima persona per deprimerlo (interpretazione della lunghissima discesa della quotazione negli anni Novanta). Massimo Mucchetti scrisse che alla sua uscita da Ivrea «aveva distrutto ricchezza per seimila miliardi di lire». Sua risposta: «Capii per tempo che in Europa non si potevano più fare computer. E l’Olivetti è stato l’unico produttore europeo a sopravvivere dandosi una nuova missione: gli altri sono spariti. Omnitel, da me fondata, si è rivelata la più grande creazione di valore della storia recente d’Italia». Ma perché lasciò poco prima del boom? «Fui costretto dalle banche. Soprattutto da Mediobanca. Nessuna capì le potenzialità di Omnitel. Che cos’erano i debiti della vecchia Olivetti davanti alle prospettive di quel gioiello? Niente. Ma le banche misuravano solo i metri quadri dei capannoni».
• I momenti clou della sua attività negli anni Ottanta furono tre: il blitz sul Banco Ambrosiano; l’internazionalizzazione del business attraverso l’acquisto della Valeo e l’Opa su Société Générale de Belgique; il tentativo di creare un forte polo alimentare comprando la Sme dall’Iri.
• Nel 1982 Roberto Calvi (1920-1982), presidente dell’Ambrosiano e vero padrone del Corriere della Sera (super iscritto alla Loggia P2, reduce dal carcere, poco dopo cadavere sotto il Blackfriars Bridge di Londra), pressato da monsignor Marcinkus (patron dello Ior, la Banca vaticana) che voleva il saldo dei suoi crediti, chiese aiuto a De Benedetti che comprò per 32 miliardi di lire il 2 per cento della Banca. Davanti al rifiuto di fargli vedere i conti, De Benedetti minacciò di chiamare la magistratura venendo precipitosamente liquidato con un congruo margine (fallito il Banco Ambrosiano, fu processato e condannato a 4 anni e 6 mesi, condanna poi annullata dalla Cassazione).
• Preso un terzo della francese Valeo, fabbrica di componenti per automobili (un’acquisizione che fece epoca: il pacchetto fu rivenduto nel 1996 per più di un miliardo di dollari), tentò nell’88 di dare l’assalto alla Société Générale de Belgique ma fu bloccato dalla politica. «Peccai di troppa arroganza, perché dichiarai di aver vinto prima del tempo, e di troppa prudenza, perché lanciai l’Opa, alla quale non ero obbligato, quando avevo il 15%: sarebbe bastato rastrellare in silenzio fino al 30%, e sarebbe stata fatta». Il caso Sme ha occupato le pagine dei giornali fino ai nostri giorni per via del processo a Berlusconi e Previti: l’Iri, guidata in quel momento da Romano Prodi, aveva deciso di disfarsene e accettò l’offerta di De Benedetti: 397 miliardi di lire da pagare in 18 mesi più altri cento miliardi provenienti da Mediobanca e Imi (soci finanziatori). Disse De Benedetti alla conferenza stampa del 30 aprile 1985: «È la prima volta in Italia che un privato acquista da un ente pubblico pagando con soldi veri, non con pezzi di carta o con impegni a babbo morto». Vittorio Malagutti: «De Benedetti, che già controllava l’Olivetti, era allora più che mai sulla cresta dell’onda. Pochi mesi prima, a febbraio, aveva rilevato la Buitoni, marchio storico dell’industria italiana. Messe insieme, Sme e Buitoni facevano dell’Ingegnere il più importante imprenditore italiano del settore alimentare, con un giro d’affari di 4.000 miliardi di lire. Colossi come Barilla e Ferrero venivano distanziati. Sotto l’ombrello della Cir, la holding di De Benedetti, erano raccolti marchi importanti come Motta e Alemagna, i pelati Cirio e le patatine Pai». Prodi, all’epoca iscritto senz’altro tra i democristiani di sinistra, aveva però fatto tutto a gran velocità e senza avvertire il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, socialista e dunque per definizione nemico dei democristiani di sinistra. Craxi, ricevute le telefonate di protesta dei concorrenti della Sme decise di mandare a monte l’affare e chiese a Berlusconi il varo di una cordata alternativa (la Iar, Berlusconi più Barilla più Ferrero, offerta 600 miliardi). «Il 15 giugno si arriva al colpo di teatro. Tutto da rifare. La Sme torna a casa. Darida (ministro delle Partecipazioni statali) annuncia che la holding pubblica dell’alimentare dovrà essere messa all’asta tra i vari soggetti che hanno manifestato interesse. Infatti, oltre alla Iar, si fanno avanti un paio di altre cordate, tra cui una delle Coop rosse. Per Prodi è uno schiaffo pesantissimo. Non a caso in un memoriale inviato otto anni dopo al pool di Mani pulite, Prodi descrive il suo primo mandato alla guida dell’Iri come il “suo Vietnam” e certo la vicenda Sme è una delle sconfitte che brucia di più. Anche De Benedetti, ovviamente, la prende molto male. Il 25 giugno del 1985, durante l’assemblea della Buitoni, l’Ingegnere spiega a un azionista che l’acquisto della Sme non gli è riuscito perché “ci sono state interferenze politiche e perché non ho pagato mazzette”» (Malagutti). Respinti tutti i ricorsi, De Benedetti decise di lasciar perdere rinunciando all’alimentare (nel marzo 1988 Buitoni fu acquistata dalla Nestlé). Da queste vicende ebbe origine il famoso processo Sme, basato sull’ipotesi che il giudice Filippo Verde avesse emesso una sentenza a favore di Berlusconi perché corrotto da Previti (alla fine Verde fu assolto, Previti condannato per corruzione semplice). Nel 1992 le attività Sme furono vendute separatamente a un prezzo superiore ai duemila miliardi di lire, circostanza che alimentò la polemica intorno al prezzo concesso a De Benedetti da Prodi. La “guerra” per la Mondadori (1991) fu una battaglia legale molto complicata: De Benedetti, azionista di minoranza, strinse un patto con Luca Formenton, il cui pacchetto, ceduto a una certa data e per una certa somma, gli avrebbe dato la maggioranza. Silvio Berlusconi, a sua volta titolare di una quota di minoranza, prese a corteggiare Formenton alla sua maniera, facendogli percepire simpatia, stima, calore umano e promettendogli più denaro di quello che offriva De Benedetti. Riuscì infine a convincerlo. Trattandosi però di un pacchetto di azioni ordinarie, e avendo De Benedetti passato gli ultimi due anni a rastrellare Mondadori privilegiate e risparmio (ne aveva quasi il 70 per cento), il duo Berlusconi-Formenton ottenne la maggioranza nell’assemblea dei soci ordinari (a cui le privilegiate e le risparmio non erano ammesse), mentre De Benedetti controllava la maggioranza nelle assemblee straordinarie, cosicché Mondadori e le sue partecipate (tra cui Repubblica, posseduta al 50 per cento) furono paralizzate: ogni decisione dell’assemblea ordinaria veniva rovesciata dalla straordinaria e viceversa. Andreotti, presidente del Consiglio in quel momento (1991), mandò Giuseppe Ciarrapico a metter pace. Il famoso lodo obbligò le parti ad accettare la spartizione: la Mondadori a Berlusconi; Repubblica, L’espresso, la catena dei giornali locali Finegil a De Benedetti. Nel 1995, Stefania Ariosto, già testimone al processo Sme, accusa Cesare Previti di aver pagato una tangente ad un componente del collegio arbitrale, il giudice Vittorio Metta. Nel 2007, Previti è riconosciuto colpevole di corruzione in atti giudiziari. In sede civile, si giunge a sentenza definitiva nel 2013: la Cassazione stabilisce che senza l’apporto del giudice corrotto, la Mondadori sarebbe stata assegnata a De Benedetti. La restituzione non è più possibile, ma Fininvest viene condannata ad un risarcimento monstre in favore di Cir di 494 milioni di euro.
• Interessante riavvicinamento nel 2005 quando De Benedetti, che in opposizione a Berlusconi aveva fondato l’associazione Libertà e Giustizia, gli espose il progetto di lanciare un fondo di private equity dedicato ai risanamenti aziendali, denominato M&C. «Tu quanto metti? – mi ha chiesto Berlusconi – Cinquanta milioni di euro. E allora, se sei d’accordo, farei altrettanto anch’io». Preoccupato delle reazioni di Repubblica e di Libertà e Giustizia, che s’erano pubblicamente indignati per l’intesa, De Benedetti decise infine di restituire i soldi.
Politica «Il dna di un imprenditore è incompatibile con la politica, il politico deve essere democratico mentre l’uomo d’impresa deve essere autocratico» (a Dario Di Vico).
• Tifoso del Partito democratico, di cui rivendicò, prima ancora che nascesse, la tessera numero uno. Considerava Prodi di passaggio («Deve comportarsi da amministratore straordinario di un Paese in difficoltà»), puntando dichiaratamente su Veltroni e Rutelli. Votò il sindaco alle primarie ma dopo la sconfitta romana dichiarò: «Questo giocare a dama con i candidati probabilmente non è quello che la gente si aspetta». Alle primarie del 2013 ha dichiarato di votare per Renzi.
• Famiglia Fratello di Franco Debenedetti (scritto tutto attaccato, vedi).
• È sposato con Silvia Cornacchia (in arte Monti, già Donà delle Rose), ha tre figli (Edoardo, Marco, Rodolfo).