28 maggio 2012
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Biografia di Aldo Busi
• Montichiari (Brescia) 25 febbraio 1948. Scrittore. Come dice lui di se stesso: «Il più grande scrittore italiano». Come dicono i suoi numerosi nemici: «Scrittore omosessuale».
• Grande dimestichezza col mezzo televisivo dove non ha avuto difficoltà ad apparire anche in forma di vamp, curatore di una rubrica culturale all’interno della trasmissione Amici di Maria De Filippi. Nel 2010 partecipò persino alla settima edizione del reality show L’isola dei famosi (Rai Due), ritirandosene però polemicamente dopo tre sole settimane, con ingiurie al Papa e al governo che gli valsero alcuni mesi di bando dalla Rai.
• «Io nasco respinto. Mio padre non mi voleva, mia madre desiderava una femmina. Io nasco e già avevo un completino rosa» [Antonio Gnoli, la Repubblica 12/1/2010]. «Io sono sempre stato una celebrità, tanto che poi mio padre mi pestava a sangue con la cinghia. A tre anni e mezzo ero in ospedale per otite o chissà, e da solo scavalcai il cancello e me ne tornai a casa. Se ne parlò per giorni, in paese. Ne avevo sette o otto e percorrevo il tratto dalla tabaccaia al sagrato danzando sulle punte, in odio a chi andava in chiesa. Ero già scandaloso. Io sono sempre stato un grande scrittore, i miei temi circolavano alle elementari anche fuori dalla mia classe».
• «I miei genitori parlavano solo in bresciano, un dialetto militaresco, secco, aspro, e le uniche parole esatte erano quelle agricole: secchio, aratro, farina, cova, scaldina, monaca... Il resto non esisteva, l’italiano era la lingua dei "siori". Non mi chiamavano "Aldo", ma "te", perché il nome ti avrebbe dato un’identità che era al di là delle tue pertinenze. Tutt’al più mio fratello era il Barba e io il Barbino, perché avevamo i capelli ricci dei capretti. Io vengo da una lingua sofferta, che non trasmetteva sentimenti. I sentimenti mediani venivano comunicati a gesti e sguardi, e questo scatenava una fantasia linguistica inconscia» [Paolo Di Stefano, CdS 30/7/2011]. «La mia lingua madre è il dialetto bresciano, per me è l’italiano la prima lingua straniera appresa. A trent’anni, avendo anche la madre veneta, non sapevo la differenza tra copia con una "p" e coppia con due "p". Facevo di quelle toppe tremende. Ma ho cominciato a scrivere professionalmente a sette anni. (…) Nella mia gioventù sono stato in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, ma non ho imparato nessuna di queste lingue a livello di lingua madre, perché ero concentrato nell’apprendere l’italiano» [Francesco Borgonovo, Il Riformista 15/12/2010].
• «Si pensa alla nota di Piero Bertolucci che mancava alla prima edizione di Seminario sulla gioventù del 1984 e che ha cominciato ad apparire in tutte le numerose ristampe Oscar: racconta di come un giorno, nell’ufficio dell’Adelphi in centro a Milano, apparve il ragazzo del bar Pinguino di via Verri, un diciassettenne alto e ricciolino. “Il grembiule bianco era legato quasi sotto le ascelle, la sinistra teneva, vicino alla spalla, un vassoio con alcuni bicchieri vuoti e cinque bottigliette di Campari Soda, anch’esse vuote... Con la destra mi porgeva un dattiloscritto enorme...”. Seminario sulla gioventù allora era intitolato Il Monoclino e l’editore lesse quasi tutte le 500 pagine fitte, “stupefatto di trovarmi davanti ogni tanto, nella farragine indescrivibile di quella colata di parole, una pagina perfetta, magistrale”. Era il 1965 e le pagine magistrali con tutto il resto furono pubblicate nel 1984, proprio dall’Adelphi, ma intanto erano passati 19 anni, e la vita si era accumulata, con tutto il suo patire, su quello che da grazioso giovinetto capace di rossore, concupito da commesse e professionisti, si era trasformato in un bell’uomo di 36 anni che ne aveva viste di ogni colore in mezzo mondo, ma di lì non si era mosso: uno che scrive tutta la vita, anche se barista, è uno scrittore, e alla fine anche i più riluttanti tra gli editori (troppo rumore, troppa estraneità, troppa alterigia, troppo talento, troppi sberleffi, troppo dispettoso esibizionismo) dovettero cedere. Prima Adelphi, poi Mondadori» (Natalia Aspesi).
• «Per Seminario sulla gioventù Roberto Calasso mi diede un anticipo di 800 mila lire, un furto: quel primo romanzo l’avevo cominciato a 14 anni e riscritto 14 volte bruciando a poco a poco tutte le stesure, perché sono un piromane. Una settimana dopo portai all’editore, finito, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, ed ero già alla fine del terzo e a metà del quarto romanzo».
• «Quel che ricordo nitidamente dell’infanzia e giovinezza sono la mia esaltazione psichica ed erotica, la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta. Li ho dentro ancora, intatti. Se penso al passato, sento solo salire un fuoco dallo stomaco che morirà con me».
• «Scrivo, e quando non ho niente da scrivere dormo e vegeto sino a che non riprende la mia splendida, autistica tempesta: non incontro, non vedo, non partecipo, esco di media una volta ogni tre settimane. Sono un cittadino esemplare perché la disonestà porta via troppe energie psichiche e perché l’onestà, essendo più sbrigativa, tiene alla larga gli scocciatori. Non ho amici, solo conoscenti: non ho amanti, né fissi né passeggeri».
• «A Busi piace descriversi come una persona sola. Dice di non avere amici, di non aver mai avuto amori, di non aver più amanti. Si definisce un egoista a cui non interessa il piacere altrui. E questa solitudine fieramente sbandierata l’ha battezzata “solitarietà”, la capacità di star da solo senza sentirsi solo» (Marianna Aprile) [Novella 2000 27/5/2010]. «Puoi amare qualcuno di una grande passione solo se riesci a rispettarlo, a capire che non è roba tua. Ecco perché non ho mai voluto una relazione. Sono stato terrorizzato dalle relazioni. Fai una sveltina e pretendono di metterti il laccio di un mutuo» [ibidem]. «L’omosessualità? È strano, non so più cos’è. Non è un rifiuto, è una bolla di sapone che è scoppiata. Non ho nessun desiderio di contatto fisico, neanche della cosiddetta tenerezza o affetto» [Di Stefano, cit.]. «Ho praticamente smesso di fare sesso. Sono un omosessuale ideologico. I maschi cominciano a farmi schifo. All’odore del caprone in palestra, preferisco la castità» [Gnoli, cit.]. «Ho sempre pensato che il sesso mi facesse schifo. Ora mi sono reso conto di essere io a fare schifo al sesso. Non mi sono mai considerato bello, perché quando ero giovane i sex symbol erano efebici, biondi. Io sembro uscito da un medaglione romano. Ho saputo di essere stato affascinante quando non lo ero più» [Aprile, cit.].
• «Disposizioni funerarie circa il mio cadavere. (…) Desidero essere cremato tre giorni dopo la mia morte: dopo una vita apparente, mi mancherebbe solo una morte apparente per sbroccare del tutto. (…) Io non "volo in cielo" o altrove né "riposo" come un comune animale umano, una volta morto, sono morto e basta. (…) Le ceneri vengono versate seduta stante nel contenitore più a tiro senza dover subire il ridicolo rito della "dispersione" in un dato luogo "della memoria". (…) Non ci sarà, va da sé, alcuna funzione religiosa né veglia né esposizione pubblica delle spoglie del cotanto, la gente se ne stia a casa propria evitando di sporcarmi in giro almeno stavolta, grazie. (…) Spero non si osi in alcun luogo mai usare una strada per fregiarsi dell’immeritato onore di averla dedicata al mio nome» [Dagospia 13/9/2010].
• Nel 2006 la manchette che pubblicizzava Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo (Mondadori) comparve sulla prima pagina del Corriere della Sera suscitando le proteste dell’Associazione Consumatori e dello stesso Comitato di Redazione del giornale, che si dissero offesi da quell’inserzione sostenendo che il giornale avrebbe dovuto rifiutarla. Nel 2007 ha pubblicato per Mondadori le versioni dal pavano (dialetto rustico padovano del Trecento) de Il Parlamento e della Bilora del Ruzante.
• Nel 2012, dopo essersi polemicamente rifiutato «per ragioni politiche» di scrivere nuovi romanzi per oltre un decennio (l’ultimo, Casanova di se stessi, risaliva al 2000), ha rotto il silenzio letterario pubblicando El especialista de Barcelona (Dalai editore). «Potrei dire che è il romanzo di tutta una vita? Direi di sì. Dopo averlo scritto, ripudiato e riscritto, mi sono riconciliato con lui. È all’altezza della mia opera e anche della mia ambizione» [Maurizio Bono, la Repubblica 2/10/2012].
• «Io sono uno scrittore, non un autore» [Di Stefano, cit.]. «Uno Scrittore non ha un argomento del cuore e nemmeno una tesi del cuore, non sarà mai seriale, perché non lo è la lingua adottata, quasi sempre inventata, e grazie a questa lingua fa esplodere l’ovvio (reazionario) nella testa di chi lo legge, gli dà la prospettiva che lo irrita, che non voleva né cercare né trovare. Il libro di uno Scrittore per restare nel tempo deve farti provare disgusto di quello che sei ora. (…) L’oggetto della sua denuncia non è mai disgiunto dall’unica denuncia possibile: contro se stesso che lo scrive e, superfluo dirlo, contro il suo peggior nemico: chi lo legge» [Dagospia 18/2/2009]. «Lo scrittore è la coscienza della nazione. Se non è tale non è niente» [Gnoli, cit.].
• «Un’opera di letteratura è sempre sincronica al suo tempo e quindi si occupa della materia fugace – effimera, ma di cui tutti siamo vivi – del suo tempo, cioè la politica. Se uno scrittore non è emarginato, vilipeso, se non è uno che “non fa parte”, “terzo” anche a se stesso, che scrittore è? Un bestsellerista che se ne va in giro in giacca e papillon a vendere grigie sfumature di cellulosa» [Bono, cit.]. «Uno come me è destinato a restare solo. Non ho una famiglia alle spalle che mi protegga. Non appartengo ai clan, non sono iscritto ai partiti. Da sempre detesto la figura dell’intellettuale organico. Che cos’è: un suggeritore, un imbonitore, un servo? Sono disorganico a tutto» [Gnoli, cit.]. «A partire dalla mia prima opera (Seminario sulla Gioventù, 1984), il mio anticlericalismo è sempre stato integro, retto e coerente. Non c’è mai stato un cedimento. Occhio per occhio, dente per dente» [Alessandro Da Rold, Il Riformista 4/5/2010]. «Non sono uno scrittore gay, non scrivo storie gay, non ho il senso del vittimismo gay» [ibidem].
• «Conta di più la vita o l´opera? L´opera, se la vita ne è la superflua coerenza. Se la vita non è coerente con l’opera che produce, il dibattito resta aperto, ma non per me: non conta né l´una né l’altra» [Altriabusi.it 3/3/2012]. «Io non ho vita privata, una parola per l’interno e un’altra per l’esterno. Questo mi rende sospetto. Sono sempre stato chiaro e nella mia vita non c’è mai stato niente di vergognoso: come uomo devo essere inattaccabile, non devo perdonarmi nulla, perché devo permettermi di essere tutto come scrittore. La mia opera è totalmente l’organizzazione alfabetica della mia vita» [Di Stefano, cit.]. «Quando scopro qualcosa in me, penso che non sia mia e quindi ho il dovere di portarla alla luce, di renderla pubblica. La mia idea, soprattutto la sua forma, non è solo frutto della mia mente, è anche una costruzione della mente sociale nella sua storia o nel suo mito della Storia» [Borgonovo, cit.]. «Io nella mia vita ho solo scritto: non ho storie d’amore, matrimoni, figli, detriti esistenzialistici. Pur di scrivere mi sono ridotto a vivere, nel senso che se non vivo non ho materiali per la scrittura» [Antonella Amendola, Oggi 7/4/2010]. «Non è mio lettore chi interpreta le mie opere sotto una luce autobiografica, poiché io, sempre e anche se decido di farmi punto di vista letterario, smetto di esistere come uomo quando scrivo. Io ho scritto dei capolavori assoluti nella storia dell’umanità servendomi di me non più e non di meno che dell’io di tutti gli altri, mica pagine di diario: quasi ogni mia opera è l’autobiografia di un altro, di ogni altro che non sono io e nel quale non mi identifico per cultura, linguaggio, morale, tic, eccetera».
• «Per assurdo è sempre un caso se l’editoria pubblica un’opera di Letteratura, non è il suo mestiere e nemmeno il suo fine. Può succedere, ma per svista, e con la stessa frequenza con cui a una fabbrica di bottoni scappi di fare i buchi a una perla» [Dagospia 18/2/2009]. «L’editoria, non solo quella italiana ma mondiale, si indirizza a un non-lettore. Gira e rigira, è la demagogia del cliente, è l’acchiappare gli sfigati e le sfigate che nel libro cercano il passatempo, la consolazione, la cabala rivelata dell’amore, del sogno nel cassetto ovvero dell’assassinio di una vita, il chip misticheggiante per far ripartire alla meglio la loro arrugginita macchina ghiandolare. Io mi indirizzo a un lettore, a una mente formata su un corpo formato, un corpo che si accetta per quel che è e che già si sente o che non è alla ricerca di stampelle anche solo per fare il prossimo passo. Se uno non è un lettore come lo sono io, non riesce ad andare oltre le prime tre pagine di un mio libro. (…) Nei miei romanzi c’è un impianto tale che o te ne senti rigenerato (e quindi ci devi mettere un minimo di vita tua) o non ne esci vivo. È il lettore che deve andare verso la mia opera, il percorso inverso non si dà» [Marco Cavalli, Oggi 8/9/2010]. «Io quando scrivo romanzi sono Mosè che scolpisce sulle tavole, mai fatto concessioni al lettore» [Di Stefano, cit.]. «Il romanzo che va verso il pubblico non è più un’opera, al più è un operetta» [Gnoli, cit.]. «Io sono un’ammiraglia dagli interni spartani, l’editoria di oggi è abituata a canotti foderati in pelle e lo sciampagnino cinese del cumenda» [Bono, cit.].
• «In Italia la letteratura non c’è mai stata, perché essa si basa sulla libertà, anche da se stessi, dal meschino proprio punto di vista stesso. Per me la letteratura italiana è costituita dai racconti del Decamerone sprovvisti ovviamente della parte moralistica del proemio e del finale, e dai miei libri. Boccaccio e Aldo Busi. Questa è stata la letteratura italiana. Non c’è altro» [Borgonovo, cit.]. «L’Italia che cosa se ne fa di uno scrittore come me? Niente. Non mi merita. Farebbe di me lo zimbello su cui gettare fango. Ma è un problema loro, non mio. Se mi chiedi se sono meglio di Philip Roth, io ti rispondo di sì, anche di Joseph. Di Nabokov? Sì. Mi sento paritario a Omero, Boccaccio, Ovidio, Catullo. Noi siamo gli scrittori!» [Di Stefano, cit.].
• «Non le viene qualche volta il dubbio di dire minchiate? Senta, caro amico: io dico solo cose sensate, intelligenti. Non posso permettermi le stupidaggini. Se dicessi una minchiata vorrebbe dire che prima ci avrei riflettuto. E dunque quella non sarebbe una minchiata, ma una super minchiata. Una cosa memorabile» (ad Antonello Caporale) [il Fatto Quotidiano 7/7/2013].
• «La simpatia: basta avere conosciuto di persona Carlo Feltrinelli, l’unico editore al mondo che si fa pagare il pranzo da uno scrittore, per trovare irresistibile anche Marcello Dell’Utri alla Direzione Libri, sezione Diari, ovviamente» [Cavalli, cit.].
• «L’intelligenza è coraggio sfregato con olio di gomito ogni giorno. Senza coraggio non esiste intelligenza» [Novella 2000 1/4/2010].
• «La sessualità non è una cosa privata ma è una cosa politica» [Da Rold, cit.].
• «Gli omosessuali si meritano la disgrazia di avere un matrimonio come tutti, al contempo diritto e cappio al collo» [ibidem].
• «L’omofobia è a detrimento della virilità. Un uomo non emancipato non è un uomo virile, non mi interessa. Non ne ha mai incontrati? Virili come me? Mai» (a Marianna Aprile) [cit.].
• «La vita stessa ormai mi sembra tutto tempo rubato al sonno» [Dagospia 19/6/2007].
• «Sono troppo spiritoso per suicidarmi» [Gnoli, la Repubblica 23/3/2010].
• Su Roberto Saviano: «Non è uno scrittore, è un giornalista, sarebbe come dire che Cristina Parodi è Marilyn Monroe. (…) Io Saviano ho cercato anche di leggerlo su Repubblica. Ragazzi, gronda retorica come io cerume da decompressione aerea. (…) La sua mi sembra una solitudine molto affollata, un Rotary di cene da ex Cenerentole tutte col faccino tuttora contrito per mestiere» [Borgonovo, cit.]. «Lui sarà anche un martire, ma il sospetto che sia un martire alla moda è insopprimibile» [Dagospia 18/2/2009].
• «Gli italiani di oggi? Che so, mai letto Tabucchi? L’ho sfogliato, è una Mazzantini con la gonna e un po’ di portoghese e di saudade. Degli italiani leggo qualche paginetta su Internet e mi chiedo: che differenza c’è con un articolo di giornale? Sono romanzi fatti di comunicabilità spicciola» (a Paolo Di Stefano) [cit.]. «Quanto ai libri del cosiddetto impegno, sono di per sé intrisi di una tale saccente ipocrisia (e parzialità di vedute) che mi stomacano già nella sacca del postino. A ben vedere, si potrebbe riassumere un libro di duecento pagine in un trafiletto di venti righe e la mia coscienza ovvero crescita di essere sociale non sarebbe cambiata e migliorata di una virgola» [Dagospia 18/2/2009].
• Busi su Busi: «Aldo Busi... Aldo Busi è un ente molto astratto per me prima di ogni altro. E poi a me Aldo Busi ha portato solo male, disgrazia, emarginazione. E poi soprattutto mancanza d’amore, perché tanto amabile non è neppure con me» [Borgonovo, cit.].
• «Il suo stile è una zona di rispetto, un braccio teso oltre il quale non è dato accostarsi. Nutrito della più consumata arte retorica, è l’opposto di qualunque retorica. Non mira ad attrarre, a persuadere, a tirare dalla propria, ma appunto a tenere a distanza: nessuna empatia a buon mercato. Due ritmi opposti lo innervano. Il primo è accumulativo, strabordante, contagioso, sfacciato e sovraccarico come un’orchestra dixie il mardi gras di New Orleans: uno spettacolo. Il secondo è quasi immobile, un fermo immagine nel suo carnevale. Non soggioga chi legge, gli lascia autonomia di sentire: una scena da ridere commuove riletta, e viceversa. Troppo bravo perché gli si resista, troppo onesto perché gli basti sedurre, Busi paga a gran prezzo la libertà che regala» (Daniele Giglioli) [la Lettura (Corriere della Sera) 16/12/2012].
• «Un grande scrittore che scrive brutti libri» (Angelo Guglielmi).