28 maggio 2012
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Biografia di Giovanni Brusca
• San Giuseppe Jato (Palermo) 20 febbraio 1957. Il 23 maggio del 1992 azionò il telecomando che provocò la strage di Capaci in cui vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro. Pentito, a suo tempo mafioso. Uomo d’onore dal 75, capo mandamento di San Giuseppe Jato dall’89, quando succede al padre Bernardo, allora finito in galera (alleato di ferro di Totò Riina nella guerra di mafia contro i palermitani, muore nel 2000). Sposato con Rosaria Cristiano, un figlio, Davide.
• Il 7 marzo 2013 è stato rinviato a giudizio dal GIP di Palermo Piergiorgio Morosini per il reato di violenza e minaccia a un corpo politico (processo sulla c.d. trattativa Stato-Mafia).
• Detto ’u Verru, “il maiale”, ma anche ‘u Scannacristiani, “l’ammazza cristiani”.
• Latitante dal 90, da allora interpretò «alla lettera il Riina pensiero, pur non essendo corleonese in senso stretto» (Saverio Lodato). Infatti approvò le stragi del 92 di Capaci (a cui partecipò anche in fase esecutiva, azionando il telecomando che fece esplodere in aria il giudice Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta), e via D’Amelio, e continuò a condividere con Riina la strategia stragista della primavera-estate 93 (autobombe di Roma, Milano e Firenze), quando l’altra fazione di Cosa Nostra, cosiddetta moderata, guidata da Bernardo Provenzano, preferiva iniziare la fase di immersione (vedi Salvatore Riina, Antonino Giuffré). Dopo l’arresto di Riina (nel 93), e di Leoluca Bagarella (nel 95), prende il comando dei corleonesi.
• Il bambino Giuseppe Di Matteo, 11 anni, di cui Brusca era stato padrino di battesimo, sequestrato dai suoi uomini il 23 novembre 1993 mentre andava a Villabate al maneggio Altofonte dei Vitale, strangolato nel gennaio 1996 da Vincenzo Chiodo (vedi), a cui Brusca disse semplicemente: « Allibbertati di lu cagnuleddu» («Liberati del cagnolino»). Chiodo sciolse poi il cadavere nell’acido. Il padre, Mario Santo Di Matteo (vedi scheda), divenuto collaboratore della polizia, aveva raccontato tutto sulla strage di Capaci. Durante i tre anni di prigionia del figlio (lo avevano tenuto in una buca), Brusca gli aveva mandato biglietti, foto e videocassette del ragazzo.
• Giudice Fabio Marino: «Come li scioglievate i cadaveri?» Brusca: «Bastavano 50 litri di acido per ogni cadavere» Giudice: «Usavate mascherine, guanti?» Brusca: «Stavamo attenti, perché se uno tocca si può far male» Giudice: «E dove buttavate tutto?» Brusca: «Nella fognatura, dove capitava» Giudice: «È pentito per quello che ha fatto?» Brusca: «Davanti a Dio sì» Giudice: «Anche davanti alla Giustizia?» Brusca: «Davanti alla Corte sì».
• Il giorno dopo lo strangolamento di Giuseppe Di Matteo, il 12 gennaio 1996, seguendo le indicazioni di Tony Calvaruso (factotum di Bagarella, arrestato e pentito), la polizia fa irruzione senza trovarlo nella sua abitazione, una palazzina di lusso in fondo Patellaro, a Borgo Molara, circondata da un giardino con piante esotiche e irrigazione automatica. Tappeti persiani, aria condizionata, sale da bagno con ampie vasche idromassaggio e rubinetti dorati, la casa è così grande che la famiglia poteva permettersi una stanza armadio per ognuno. La fuga precipitosa non ha consentito di portare via tutto il guardaroba: tailleur di Moschino, pantaloni Armani, bluse di Coveri per lei, centinaia di camicie per lui (appese alle stampelle, alcune coi gemelli ai polsi, erano ordinate secondo il colore). Sul comodino della camera da letto il libro intervista di Marcelle Padovani a Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra.
• Nel febbraio 1996, quando viene arrestato, il suo braccio destro Giuseppe Monticciolo fa scoprire il bunker dove era stato ucciso Giuseppe Di Matteo, in mezzo alla campagna, a Giambascio, vicino a San Giuseppe Jato, e dove Brusca nascondeva il suo arsenale: più di quattrocento pistole, decine di fucili e di kalashnikov, e persino alcuni lanciamissili.
• Viene arrestato il 20 maggio 1996, a Cannatello, frazione di Agrigento, grazie alla localizzazione del cellulare in suo uso (Monticciolo aveva detto: « Quannu ci abbruscia ‘u culu, Brusca curri a Giurgenti»). Per avere la certezza di entrare nella villa giusta un poliziotto si era messo alla guida di un motorino senza marmitta nelle immediate vicinanze, in modo da essere sentito dai colleghi che intanto intercettavano il Brusca al telefono. Al momento dell’irruzione la televisione era accesa sul canale che trasmetteva uno sceneggiato su Giovanni Falcone, e pochi minuti dopo in sovrimpressione scorreva la notizia, in tempo reale, dell’arresto di Giovanni Brusca. Quando invece lo riprendono le telecamere lui non riesce a trattenersi dal tirare fuori la lingua rivolto all’obiettivo. Nella villa viene sequestrata anche l’intera collezione di orologi di Brusca, una cinquantina, in oro, in platino, con diamanti incastonati, di ogni marca (tra cui Rolex, Vartier, Girard-Perregaux, Vacheron Constantin, Ebel). Tutti confiscati in quanto provento di reato (per lo più regali di vittime di estorsioni in cambio di uno sconto sulla tangente), gliene restituiranno solo uno, trattandosi di un regalo di compleanno dei nonni a suo figlio Davide.
• La madre Antonina, intervistata su Repubblica il 24 maggio: «Io dovrei vergognarmi? Mio figlio dovrebbe vergognarsi? E di che cosa? Ma se lo Spirito Santo ci illumina la mente, e la illumina ai giudici, lui non sarà condannato (...) Io dico magari si pentisse Giovanni. Non lo farà mai perché non è un vigliacco, ma i pentiti fanno vita da signori, e così i loro parenti. E sono liberi. Ha ragione Sgarbi che i processi sono giusti per tutti meno che per uno, e finisce sempre che quell’uno sei tu».
• Il 23 maggio successivo, terzo anniversario della strage di Capaci, Brusca manifesta di voler collaborare. In realtà vuole attuare il piano di delegittimazione dei pentiti elaborato durante la latitanza col fratello Enzo (arrestato con lui nella villa di Cannatello). Entrambi smentiscono i collaboratori sinceri allo scopo di far riaprire i processi fondati sulle loro dichiarazioni (non potendosi parlare comunicano a gesti durante i processi da una cella all’altra, avendo già concordato d’altronde le versioni dei fatti da dare ai magistrati). Finché Enzo non ammette di avere mentito (vedi BRUSCA Enzo), e i pm del pool antimafia di Palermo (diretto da Gian Carlo Caselli) inviano a Giovanni un’informazione di garanzia per calunnia, che lo convince a collaborare (infatti cambia difensore). La prova è che lui stesso smentisce il suo precedente avvocato, Vittorio Ganci, quando, a fine agosto, parlando coi giornalisti, riferisce che Giovanni Brusca aveva ricevuto dall’onorevole Luciano Violante una promessa di impunità per lui e suo padre in cambio della disponibilità a rilasciare dichiarazioni contro Andreotti. In effetti tra fine 1991 e inizio 1992 Brusca aveva viaggiato per caso sul medesimo volo aereo Palermo-Roma con Violante, e si era appuntato la data del viaggio, nell’eventualità dell’arresto, con l’idea di dichiarare che era stato il parlamentare a chiedergli di incontrarlo, e offrire il biglietto aereo come riscontro. I magistrati d’altronde erano già stati avvertiti da Monticciolo, che essendo a conoscenza del piano calunnioso di Brusca contro Violante, lo rivelò non appena si pentì.
• Durante il processo per la strage di via D’Amelio, nel settembre 1998 incontra in aula Santino Di Matteo (padre di Giuseppe), che dopo averlo apostrofato « ’Stu figghiu ‘e buttana», gli scaglia contro il microfono e poi urla: «Giocava con mio figlio (...) Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale (...) Ci dovrei staccare la testa a quello là (...) Solo questo ha fatto nella vita. La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo».
• Durante la collaborazione Brusca ammette oltre alle stragi del 92-93, anche l’omicidio Di Matteo, e tanti altri, in tutto circa centocinquanta.
• «Non cercherò attenuanti. Non ho avuto alcuna esitazione a mandare a morte un ragazzino di quindici anni. Sono diventato “il mostro” per avere commesso questo delitto. Forse non lo sarei diventato se mi fossi limitato a uccidere il dottor Falcone e sua moglie. Mi rendo perfettamente conto che un atto del genere non può essere perdonato e nemmeno dimenticato (...) Ha senso pentirsi per fatti del genere? Non lo so (...) ogni volta che in dibattimento mi hanno rivolto domande su Giuseppe Di Matteo ho perso la calma, spesso il mio autocontrollo, la mia sicurezza espositiva. Serve a qualcosa vergognarsi quando si è fatto uccidere un ragazzino che poteva essere tuo figlio? Non lo so. So, di sicuro, che per me sarebbe meglio non parlarne».
• «Non l’ho mai nascosto: ho torturato persone per farle parlare, ho strangolato sia chi rendeva la sua confessione sia chi restava muto, ho sciolto i corpi nell’acido, ho arrostito cadaveri sulle graticole, ho seppellito i resti scavando le fosse con macchine meccaniche. Ci sono pentiti che, adesso, dicono che provavano schifo per quello che facevano. Posso parlare per me: non mi sono mai impressionato di questi aspetti della mia attività».
• «Ho una piccola cicatrice sul mignolo della mano destra: avevo poco più di vent’anni, mi trovavo a Napoli nella villa di Angelo Nuvoletta, punto di riferimento dei corleonesi. Stavamo strangolando una persona che non ricordo più neanche come si chiamasse. A un tratto, la vittima riuscì a impugnare la pistola di Nuvoletta infilata sotto la cinghia dei pantaloni. Partì un colpo che tagliò in due un dito di Nuvoletta e ferì anche me. Lo strangolammo lo stesso. Non l’ho mai nascosto: ho torturato persone per farle parlare, ho strangolato sia chi rendeva la sua confessione sia chi restava muto, ho sciolto i corpi nell’acido, ho arrostito cadaveri sulle graticole. Non mi sono mai impressionato di questi aspetti della mia attività. Per strangolare adoperavamo una cordicella di nylon molto sottile: due di noi tenevano il malcapitato per le braccia, due per i piedi e uno, messo dietro, tirava... Dopo una decina di minuti sopraggiungeva la morte. Come lo capivamo? Perché i tessuti si allentavano e la persona si faceva la pipì e la cacca addosso... Dovevamo essere sicuri che fosse avvenuto il decesso. Sarebbe stato rischiosissimo immergere nell’acido un corpo che avrebbe potuto ancora avere delle convulsioni, degli spasmi. Qualche schizzo d’acido sarebbe stato micidiale per tutti i presenti. Occorrono 50 litri di acido per ottenere la disintegrazione di un corpo in una media di tre ore».
• «Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, lo scheletro del volto si deforma. Può restare parzialmente intatto il bacino... Alla fine non si vede quasi più niente. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare da qualche parte. A San Giuseppe Jato li andavamo a buttare nel torrente».
• «Quando i palermitani ci sfottevano chiamandoci “zoticoni” o “cafoni” o “peri incretati”, cioè piedi sporchi di fango, noi rispondevamo: “E voi, allora? Bella acqua che bevete a Palermo...”. La diga dello Jato è infatti una delle principali risorse idriche del capoluogo siciliano».
• «Sino all’inizio degli anni Ottanta, noi adoperavamo un sistema molto più primitivo e molto più lento. Arrostivamo i cadaveri sulle graticole. Si cominciava di primo mattino e si finiva al tramonto: per fare scomparire un solo cadavere impiegavamo dalle sette alle otto ore e ci volevano camion carichi di legna per tenere sempre viva la fiamma. Poi anche noi cominciammo a adoperare l’acido» (dal libro-intervista di Saverio Lodato, Ho ucciso Giovanni Falcone).
• «Lo chiamavano “il porco”. E ne sparlavano sempre. Dicevano che era un codardo, un miserabile, che era quello che era perché figlio di quel padre riverito come un califfo. Neanche quelli che si riunivano nel casolare di contrada Dammusi, i più intimi, lo sopportavano. Andavano tutti là dopo avere scannato qualcuno e brindavano con lo champagne, solo casse di “Monsciandò”. Lo baciavano perché dovevano baciarlo, lo salutavano perché dovevano salutarlo. Ma non lo rispettavano. Troppe femmine. Troppe chiacchiere. Troppe ostentazioni. Giovannino neanche sembrava uno dei Brusca, dinastia eletta di San Giuseppe Jato, capitale di mafia di un pezzo di Sicilia che ha sempre avuto qualcosa di indicibile. Non somigliava in niente al vecchio Bernardo, quel pecoraio che puzzava come un caprone ma che aveva il cervello più fino di tutti nella Cosa Nostra sanguinante dei Corleonesi. Però “il porco” comandava. Eccome se comandava. Pure a Palermo. Comandava e faceva uccidere. Uomini, donne, vecchi, bambini. Tutti quelli che si mettevano contro lo “zio” Totò o contro lo “zio” Vicè, contro quei signorotti di campagna che tra gli anni 80 e 90 avevano in pugno l’isola. E Giovannino Brusca era un protetto di corte. Di più: era quello che in siciliano si dice un “canazzu da catena”, loro lo scioglievano e lui fedele ubbidiva (...) Quando poi decise di pentirsi, Giovannino si autoaccusò anche di cento e passa omicidi. Ma forse ne dimenticò qualcuno. E poi ha aspettato, ha aspettato con pazienza un po’ di libertà. Dopo otto anni, è arrivata anche per lui» (Attilio Bolzoni)».
• Dal 2000 è ammesso al programma speciale di protezione e al relativo regime di detenzione leggero riconosciuto ai collaboratori di giustizia, e dal 2004 a permessi periodici per incontrare la famiglia.
• Il suo difensore, l’avvocato Li Gotti, intervistato da Saverio Lodato in occasione delle polemiche scatenate dalla concessione dei permessi premio a Giovanni Brusca: «La legge premiale ha assicurato la cattura dei latitanti, la scoperta degli autori di delitti, il ritrovamento di micidiali arsenali, ha scongiurato altre stragi, altri omicidi. È una legge che volle Giovanni Falcone. E anche per essa, Giovanni Falcone fu ucciso. Questo dato di fatto, in tanti, preferiscono ignorarlo».
• Interrogato dal pm Alfonso Sabella sull’omicidio di un giovane di Altofonte (una settimana prima che si sposasse) dovette spiegargli perché tanta fretta di ammazzarlo: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova» (a cura di Paola Bellone).