28 maggio 2012
Tags : Diana Blefari Melazzi
Biografia di Diana Blefari Melazzi
• Roma 4 aprile 1969 – Roma 31 ottobre 2009. Neobrigatista. Intestataria del covo delle Brigate Rosse di via Montecuccoli a Roma, dove erano conservati cento chili d’esplosivo e materiale di archivio. Arrestata il 22 dicembre 2003 in una villetta sul litorale nord di Roma, tra Santa Severa e Santa Marinella. Fino a quel momento incensurata, proviene da una famiglia nobile del cosentino (il padre è cugino dell’ambasciatrice Anna Blefari Melazzi). Faceva la commessa in due edicole.
• Ruolo nelle Br: soprattutto logistico, pedinamenti ecc. Condannata a nove anni per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna le diede l’ergastolo per quello di Marco Biagi, condanna annullata nel dicembre 2007 dalla Cassazione con rinvio ad altra sezione della Corte d’Assise d’Appello di Bologna (il sostituto procuratore generale Alfredo Montagna chiese nella requisitoria un nuovo giudizio per accertare il suo coinvolgimento mancando prove che andassero al di là di un semplice «interesse» della donna, assai lontano da un «indizio di responsabilità»). Nel nuovo dibattimento di secondo che portò, il 27 ottobre 2009, all’ergastolo in via definitiva. Quattro giorni si suicidò nella sua cella del carcere di Rebibbia: «È morta suicida come la madre baronessa, Diana Blefari Melazzi, la donna che fece il salto da una famiglia di buona borghesia dei Parioli alla lotta armata... Debole, depressa, sofferente, dal mondo violento delle Br a poco a poco si è rintanata in un nuovo universo fatto di solitudine e di rifiuto della vita ai limiti dell’autismo... A quel dormiveglia esistenziale alternava comportamenti che gli psichiatri definivano “paranoici”. I suoi lunghi silenzi, ad esempio, erano interrotti solo da frasi di paura, veri attacchi di panico che le facevano apparire ovunque complotti. Temeva che il cibo fosse avvelenato e che intorno a lei si aggirassero, come fantasmi, sicari incaricati da Massimo D’Alema di ucciderla. Era uscita dal carcere duro e stava fra le detenute comuni... Se n’è andata strangolandosi con un lenzuolo» (Alberto Custodero) [la Repubblica 2/11/2009].