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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Franco Bernabè

• Vipiteno (Bolzano) 18 settembre 1948. Manager. Grande esperienza nel risanamento di imprese in crisi. È stato presidente esecutivo di Telecom dal 13 aprile 2011 al 3 ottobre 2013 (quando si è dimesso), dopo esserne stato amministratore delegato dal 2007 al 2011. Era stato amministratore delegato di Telecom anche nel 1998-1999 («ho fatto l’ad solo per due settimane, i sette mesi successivi li ho passati a difendermi dall’Opa», su cui vedi Roberto Colaninno). Fondatore ed ex presidente di FB Group, consigliere PetroChina (independent non-executive director). Già amministratore delegato dell’Eni (1992-1998), capo della Biennale di Venezia (2002-2003), vicepresidente di Rothschild Europe (dimissioni al ritorno in Telecom) ecc.
• Infanzia a Innsbruck. «Il padre, ferroviere, quando i figli erano alle medie decise che dovevano crescere in una grande città italiana, che offrisse buone scuole e buoni stimoli culturali. Scelse Torino. E di Torino Franco si innamorò. L’università (Scienze politiche, laurea nel 1973) con Norberto Bobbio e Franco Reviglio. La Fondazione Einaudi. E poi, dopo un passaggio all’Ocse, la Fiat» (Raffaella Polato). Reviglio lo portò all’Eni nel 1983 in quel gruppo di giovani brillanti poi chiamati “Reviglio boys”. Di quei tempi si conserva qualche memoria in un lungo ritratto di Siniscalco scritto da Marco Ferrante: «Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda, dice che a un certo punto si affacciò anche Bernabè, nel gruppo già formato da lui, Siniscalco e Giulio Tremonti, tutti giovani e tutti ambiziosi, ma all’epoca non competitivi: “Franco era analitico, prudente, con una conoscenza dell’impresa più definita della nostra, e con una capacità di entrare in rapporto col potere più consapevole”».
• Giuseppe Turani: «Aveva dato una mano non piccola all’ex ministro delle Finanze a riportare l’Eni ai compiti originari. Fatto fuori quasi tutto quello che non era petrolio o gas, rimaneva la chimica (fonte di grandi finanziamenti ai partiti). E a quel punto Reviglio era stato sostituito da Gabriele Cagliari, un tecnico che arrivava dall’interno della società. Nel 1992 il presidente del Consiglio, Giuliano Amato, fa una mossa semplice che ha cambiato la storia d’Italia: trasforma tutti gli enti pubblici in Spa. All’inizio sembra una bizzarria senza senso. “Vedi – mi spiegherà più tardi lo stesso Amato – l’operazione è elementare: in questo modo metto questi enti sotto il codice civile. Basta con i regimi speciali e i pasticci. Per loro varrà il codice civile, come per tutte le altre società italiane”. Franco Bernabè, che allora era direttore generale, si trova di colpo a fare l’amministratore delegato. Sotto e sopra di lui è andata avanti per mesi la guerra chimica (scontro Cagliari/Raul Gardini, poi morti entrambi suicidi), che ha in parte distrutto il gran lavoro di Reviglio. Quando Bernabè assume i poteri non ha un attimo di esitazione. Porta dai magistrati tutte le carte della società, ma, soprattutto, chiede e ottiene le dimissioni di tutti, nessuno escluso, i consigli di amministrazione del gruppo Eni. In 60 giorni cambia ben 250 consiglieri. Me lo ricordo ancora, seduto davanti alla mia scrivania, con in mano il suo notebook, a illustrarmi i grafici dove l’Eni perdeva e dove guadagnava. “È un’azienda fantastica, solo che è piena di roba che non c’entra niente con il suo mestiere. Roba che non sappiamo nemmeno fare” (l’Eni di quegli anni coltivava persino orchidee sul Monte Amiata). E infatti in pochi mesi chiude o vende ben 73 “business” societari e lascia a casa 15mila dipendenti. Da quel momento l’Eni inizia una rinascita virtuosa che non si è ancora interrotta e che ne ha fatto una delle aziende più ricche e profittevoli del paese. Un caso studiato a Harvard. Nel novembre 1998 cambio di scena. Bernabè viene spedito alla Telecom. L’azienda privatizzata da poco è finita nelle mani del cosiddetto “nocciolino” duro. Un gruppo di imprese private che ha in mano una quota piccolissima della società ed è guidato dagli Agnelli».
• È amministratore delegato Telecom solo da pochi mesi e, febbraio 1999, l’Olivetti di Colaninno lancia un’Offerta pubblica di acquisto su Telecom Italia. Bernabè si dice contrario e studia delle contromisure (tentando un’alleanza con Deutsche Telekom, poi progettando l’incorporazione di Tim, che avrebbe reso il boccone molto più grosso). L’Opa inizia a maggio e Olivetti raggiunge il 51% delle azioni di Telecom Italia. A giugno 1999 Bernabè dà le dimissioni. «Convitato di pietra che viene evocato quando c’è qualche poltrona importante da occupare» (Paolo Madron), lasciata Telecom cominciò «una traversata, non proprio nel deserto, ma fuori da incarichi di gran potere. (...) Ha fatto del lavorar sodo la propria filosofia, all’Eni lo ricordano ancora entrare alle prime ore del mattino per chiudersi nel suo ufficio fino a notte fonda. Uno come lui non sta certo con le mani in mano. Il colpo migliore gli riesce con Rothschild dove nel 2004 fa confluire la sua società di advisory finanziario ottenendo la carica di vicepresidente per l’Europa. Gran networker dietro l’atteggiamento schivo e l’aria da ragazzo timido che non lo ha mai abbandonato, lo troviamo dovunque ci sia da acquisire relazioni e influenza, dal Council on Foreign Relations alla sua filiazione Trilateral, dall’Aspen alle mitiche riunioni del Bilderberg dove si incontra il governo mondiale, secondo le popolari teorie cospirative. Non può mancare la Cina del boom, infatti Bernabè entra nel consiglio (con ruolo non esecutivo) anche di PetroChina il colosso energetico più capitalizzato del mondo. Insomma, la risalita ai vertici è stata ben preparata. Pur apprezzato nel centrodestra variante tecnocratica, le simpatie maggiori vengono dal centrosinistra (e viceversa)» (Stefano Cingolani).
• «La sua proverbiale sicurezza, quella di chi è certo di avere calcolato tutto. Un’arte appresa all’Ocse, a Parigi, a metà degli anni Settanta: “È lì che ho imparato ad analizzare i problemi, a entrare nei dettagli, a razionalizzare questioni complesse”» (Angelo Pergolini).
• A fine 2007 viene richiamato a guidare la (nuova) Telecom da Generali, Mediobanca, Intesa e Benetton, azionisti di maggioranza col 58% di Telco (la holding che controlla Telecom: su questo vedi la storia della vendita alla voce Marco Tronchetti Provera)
• Il 7 marzo 2008 annunciava un dividendo di appena 8 centesimi, tagli di 1,2 miliardi a livello di gruppo, investimenti di 15 miliardi nel triennio e un futuro «senza fuochi d’artificio»: «Saranno 5 mila, su 83 mila totali, i dipendenti che lasceranno Telecom entro il 2010 (...) La manovra sul personale produrrà a regime 300 milioni di risparmi a fronte di 250 milioni di euro di costi, che andranno ad aggiungersi ai 100 milioni già stanziati, e servirà a raggiungere l’obiettivo del 40% di riduzione dei costi» (Federico De Rosa).
• Nella notte del 23 settembre 2013, Generali, Mediobanca ed Intesa Sanpaolo raggiungono un accordo con spagnola Telefónica per la cessione delle loro quote in Telco. L’operazione permetterebbe al gestore spagnolo di portare dal 46 al 66% la sua partecipazione nella holding che controlla il 22,4% di Telecom Italia, con un’opzione per un ulteriore incremento fino al 70%. Fino a che l’Antitrust non avrà dato il via libera, i diritti di voto di Telefónica su Telco resteranno relativi solo all’attuale 46,1%, poi saliranno. Telefónica si è tenuta la possibilità («opzione call») di salire al 100% di Telco acquistando tutte le azioni dei soci italiani in Telco. Pochi giorni dopo la riorganizzazione di Telco, il 3 ottobre 2013, Bernabè si dimette da Telecom (6,6 milioni di euro di buonuscita).
• «È fuorviante dire che Telecom Italia è un’azienda in crisi, certamente c’è un deficit, tuttavia l’industria delle comunicazioni ha ancora enormi prospettive di crescita legate alle tecnologie e Telecom Italia ha le capacità per competere con successo nel mercati in cui opera. Lo dimostra il fatto che dal 2007 abbiamo investito milioni di euro garantendo infrastrutture al livello di maggior paesi europei» (Bernabè in Senato il 25 settembre 2013).
• Marianna Rizzini: «Chissà poi se Bernabè stava dissimulando, con quell’espressione di tranquilla allerta sul volto, quando, durante l’audizione in Senato, ha definito con freddezza burocratica l’ascesa di Telefonica “cambiamento nell’assetto azionario” mentre i giornali ne parlavano in termini catastrofici (“Norimberga del capitalismo italiano”; “Telecom spolpata”, “bandiera bianca”), dando tuttavia la colpa principale ad altri (i soci, i privatizzatori precedenti, gli scalatori del ’99), come se lui, Bernabè, fosse fatto di un’altra materia, da maneggiare con cura. (...) Paziente, sorridente, permaloso, inafferrabile. È capace di parlare a te in un modo, a me in un altro, a lui in un altro ancora – dello stesso argomento e nella stessa giornata, adattandosi all’interlocutore mentre passa da una stanza all’altra, e se è arte della guerra o no vai a capirlo. Nulla dell’imperatore maestoso c’è in lui, e anzi tutti notano l’“affabilità” di Bernabè, “uomo schivo e riservato” che al massimo della mondanità si concede ai surprise party organizzati dalla moglie per il suo compleanno, in qualche ristorante poco al di sopra del livello trattoria. Pochi anche gli amici noti: qualche ex collega del periodo Eni, Lilli Gruber, Chicco Testa e Domenico Siniscalco, suo ex compagno di esordio professionale tra i “Reviglio boys”, i ragazzi formati dal professore e ministro socialista Franco Reviglio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Più facile dire ciò che non è. Non è un manager “vecchia scuola Iri”, anche se ai tempi dell’Iri e delle prime privatizzazioni Bernabè e Romano Prodi procedevano in sincrono, da privatizzatori baldanzosi. Non ha, degli antichi manager tosti e magari diversamente democratici, il piglio autoritario (più simile a quel modello appare il protagonista spagnolo della vicenda Telecom-Telco, César Alierta, vertice Telefonica). Non è un navigatore da cordata di gruppo, Bernabè (“lavora in solitario, pur avendo tutti i contatti nei gangli giusti”, dice un economista). Non è dispotico, non è bisbetico. Non è enfatico. Non è smodato (cammina molto, come gli dice il fratello medico, e mangia bene). Non è noncurante. Non è schierato. Non si definisce, vuole restare indefinibile. Cade, ma cade in piedi. E questa forse, alla fine, è la sua arte della guerra» [Fog 29/9/2013].
• Grande passione per l’arte moderna, dal 2004 è il direttore del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento.
• Sposato con Grazia Curtetto, due figli (Marco Norberto e Lucia, entrambi nell’organismo esecutivo di FB Group. I due hanno aperto una scuola di yoga a Roma).