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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Enzo Bearzot

• Aiello del Friuli (Udine) 26 settembre 1927 - Milano 21 dicembre 2010. Allenatore di calcio. Ct della nazionale campione del mondo nel 1982. Da calciatore giocò con Inter, Catania, Torino. Da ultimo presidente-garante del Settore tecnico della Figc. «I rivali più pericolosi sono quelli che ti fanno dormire la notte prima».
Vita Figlio di un direttore di banca (a Cervignano): «I miei preferivano fare di me un medico, un farmacista o almeno vedermi lavorare in banca, come mio padre». Mamma Elvira morì mentre era a Palermo con il Torino, papà Egidio mentre era in Olanda con la Nazionale.
• Benito Lorenzi, che lo ebbe per compagno da calciatore: «Correva per novanta minuti. Rendimento garantito, sotto questo punto di vista. Ma io non so dire bugie: le basi tecniche erano poca roba».
• «Una carriera da mediano, di quelli d’una volta: tosto e risoluto, la battuta pronta col piattone, la testa a svettare, grazie alla statura torreggiante, per poderosi rilanci; sulla mezzapunta avversaria o sul centravanti non fa differenza. Ai tempi del ginnasio frequenta il pallone con successo. Lo nota un dirigente della Pro Gorizia, serie B, e lo porta nel calcio vero. Due anni dopo il sogno diventa realtà con la maglia dell’Inter, ma il gran numero di campioni gli lesina spazio. Una stagione a Catania, che lo matura come uomo e calciatore, poi il Torino, l’amore della sua vita di giocatore, una nuova parentesi in nerazzurro e infine dieci stagioni filate in granata, fino all’addio. Con una sfortunata presenza in Nazionale (in marcatura sull’immenso Puskas). Nereo Rocco, tecnico granata, gli rivolge l’invito formale: “Ciò, bruto mona, quand’è che ti scominzi a darme una man?”. Non aspettava altro, prende in mano la De Martino, la Primavera. Dopo quattro anni, quando l’annaspante Prato gli chiede aiuto, si butta e coglie l’obiettivo, conquistando un ottimo nono posto. L’uomo del destino però è Ferruccio Valcareggi, che gli propone di entrare nei ranghi federali, con la prospettiva di un lavoro in profondità. Accetta e segue la lunga trafila, al seguito di zio Uccio ai mondiali del 1970 e 1974, poi alla guida dell’Under 23 e infine, nel 1975, aiutante di campo del ct Fulvio Bernardini. La scelta desta commenti ironici, Bearzot è “quello del Prato”. Nel 1977, quando Bernardini si fa da parte con amarezza, diventa commissario tecnico azzurro e comincia la più schizofrenica avventura della storia del calcio italiano» (Carlo F. Chiesa).
• «Ha sempre interpretato il ruolo con grande rigore e non occorreva entrare nello spogliatoio azzurro per capire che razza di rapporto ci fosse tra allenatore e giocatori, quale entusiasmo e quale grado di dedizione fosse in grado di smuovere quel friulano tutto d’un pezzo. Basta vedere come ricostruisce le sue vittorie: nel segno della sofferenza, mai del compiacimento» (Indro Montanelli).
• In Spagna, nell’82, arrivò in mezzo a violente contestazioni per non aver portato il fantasista dell’Inter Evaristo Beccalossi e il bomber della Roma Roberto Pruzzo. A Vigo, nella prima fase, quando la squadra ottenne tre pareggi in tre partite, molti giornalisti chiesero che fosse sostituito in corsa. Il clima cambiò dopo l’inattesa vittoria contro l’Argentina di Maradona e, soprattutto, dopo quella ancora più clamorosa contro il Brasile di Zico. Suo ricordo più vivo: «Dino Zoff che mi dà un bacio sulla guancia, dopo la partita col Brasile. Senza dire una parola. Io quella sera, dopo il Brasile, mi sentivo già campione del mondo. Perché la Polonia l’avevamo già incontrata, faceva melina, abbiamo sbagliato un sacco di gol ma eravamo più forti. I tedeschi erano potenti ma non veloci. Forse avremmo avuto più difficoltà con la Francia. I tedeschi li abbiamo battuti grazie alla superiore velocità. Della finale ricordo i ragazzi che mi buttano in aria, e nei rari momenti di lucidità pensavo al pomeriggio del 19 giugno 1938, quando eravamo tutti nella piazza di Gradisca a sentire la voce di Nicolò Carosio dagli altoparlanti. Nel 4-2 finale c’erano due gol di Gino Colaussi, detto Ginùt, che era di Gradisca. Fu quel giorno che decisi che avrei fatto il calciatore» (allusione al secondo titolo mondiale vinto dall’Italia).
• Il suo famoso naso da pugile è il risultato di tre fratture per scontri di gioco, due causate dai compagni di squadra.
• Sposò Luisa Crippa, conosciuta festeggiando una vittoria. Un figlio, Glauco.
• «Quando studiavo a Gorizia dai Salesiani, ero terrorizzato dall’idea del peccato e dall’idea della morte. Adesso non ho più paura di nulla, davvero. Un bel passo avanti».
• Sulle polemiche relative alla partita Italia-Camerun, della prima fase del mondiale in Spagna, vedi Oliviero Beha.
Frasi «Il giocatore italiano deve pensare di poter vincere la partita da solo».
• «È importante perdere le amichevoli. Porta bene».
Politica Antiberlusconiano.
• «Enzo Bearzot o, ancor prima, Nereo Rocco, rappresentanti di un’Italia rurale e sobria, provinciale e schiva, che – tuttavia – appare più affidabile, ma anche più raffinata, di quella dominante (a destra come a sinistra), così effimera e ondivaga. E, soprattutto, quell’Italia “mediana” si rivela capace di parlare a chi, in genere, non viene né ascoltato, né interpellato dalle parole della politica» (Luigi Manconi).
Tifo Torino e Inter.
Vizi «“Non chiedo altro. / Fumare / la mia pipa in silenzio come un vecchio / lupo di mare”: anni fa Bearzot s’impadronì d’una citazione di Umberto Saba, vantandosi d’essere stato iniziato all’arte della Savinelli da Sandro Pertini, sull’aereo di ritorno dal Mundial» (Francesco Battistini).
• Patito di jazz. Suo paragone tra il jazz e il calcio: «La squadra è l’orchestra, il tema musicale è l’avversario, dunque va suonato, ogni volta in modo diverso. C’è una base armonica comune, che va rispettata e corrisponde al sistema di gioco. Ma in questo ambito ciascuno ha la possibilità di esaltare le sue qualità personali, che danno lustro alla prestazione collettiva. La batteria dà i tempi di fondo, come il regista che detta la cadenza di gioco, il sax può essere il fantasista, il contrabbasso è il libero, capace di difendere ma anche di offendere, la tromba è il goleador».
• Patito di letteratura: «Quando ero studente al liceo classico di Udine, leggevamo Dostoevskij e mi ricordo intere pagine per una sola descrizione, di una persona o di un ambiente. A quei tempi non si leggeva Hemingway. Quando potei leggerlo, ne rimasi affascinato: le descrizioni erano lunghe una riga. Il calcio che mi piace non è Dostoevskij, è piuttosto Hemingway».
• Celebre la partita di scopone scientifico giocata con Pertini, Causio e Zoff sull’aereo che riportava la Nazionale a casa dopo il Mondiale di Spagna: «“Facciamoci una partita”, dice dunque Pertini. Ma pretende che si scinda la coppia fissa Bearzot-Zoff, due che per serietà e vicinanza di vedute erano fusi in un nome solo (Bearzoff). È una coppia fissa, parla la stessa lingua strana, magari si fa pure i segni. Lo dice bonariamente, quindi i due furlani non se la prendono. Il capitano col presidente, e Bearzot convoca Causio. Gioverà ricordare che nel 1982 non c’erano telefonini né playstation e dunque nei ritiri s’ammazzava il tempo giocando a carte, in genere col mazzo da 40 (scopa, briscola, tressette a prendere o ciapanò). Una leggenda metropolitana che circolava subito dopo la partita diceva: 17-16 per la coppia Bearzot-Causio, Pertini mazziere s’è tenuto di palo il settebello dispari. Non andò così. Ma il ricordo affettuoso che gli azzurri hanno di Pertini li porta a non premere molto su un tasto: il presidente era il meno allenato, o il più scarso, dei quattro. Che, sportivamente, decisero di non infierire. L’unica cosa certa è che vinsero Bearzot e Causio. Per lancio della spugna, fa intendere il Vecio» (Gianni Mura).
• «È morto il 21 dicembre, come un altro ct, Vittorio Pozzo, che di mondiali di calcio ne aveva vinti due. Il terzo, per quelli della mia generazione, resta il più bello. Si sapeva che il vecio stava male, prima costretto alle stampelle, poi alla carrozzina, poi al letto. Si era isolato, nel male. Sua moglie Luisa faceva filtrare solo i fedelissimi. Si era isolato già prima, da pensionato felice di godersi i tre nipotini (Rodolfo, Livia, Giulia). Milano era la sua città dal 1951, da quando aveva sposato Luisa, conosciuta sul tram numero 3. Non gli piaceva più, per quel progressivo incattivirsi, per la fretta, la maleducazione in generale e del tifo in particolare. La prima casa era in via Washington 107, riconoscibile dalle scritte sul marciapiede in vernice bianca: “A morte Bearzot”. Sarà stato un tifoso di Beccalossi o di Pruzzo, gli illustri non convocati, o uno dei tanti antipatizzanti che ogni notte minacciavano via telefono o citofono. Bearzot continuava a cambiare numero di telefono, poi cambiò casa e andò in via Crivelli. Trovando la tranquillità giusto perché aveva vinto nell’82, ma quante ne aveva dovute sentire e leggere. Scimmione. Bastardo. Scimpanzé. Direttore di un lebbrosario (il ritiro degli azzurri). Vittima di un cortocircuito cerebrale. Raccomandato da Fulvio Bernardini (non era vero) preoccupato che ci fosse il pane per i suoi due figli (nemmeno questa era vera, i risparmi di un’onesta carriera di operaio specializzato a centrocampo, così si definiva lui, li avevi messi a frutto)». [Gianni Mura la Repubblica 22/12/2010]
• «Faceva parte di quella razza friulana seria, affidabile, laboriosa e capace che aveva contribuito a scrivere pagine importanti nella storia del calcio nostrano. Gente come Cesare Maldini, suo secondo, come Guglielmo (Memo) Trevisan (1918-2003), suo inseparabile collaboratore, come Nereo Rocco (1912-1979), come Ferruccio Valcareggi (1919-2005)… Tra l’altro il Vecio aveva abitato la casa di Torino in Lungo Po Antonelli dove ero poi andato a stare io. Mi aveva chiesto se nel mobile bar dell’appartamento ci fosse ancora una certa confezione di ciliegie sotto spirito che abitavano lì prima che arrivasse lui; c’erano ancora. È una sciocchezza ma, a modo loro, sono cose in comune: l’appartamento, l’arredamento, le ciliegie, il Po sotto casa, mi portavano con il pensiero a quel vecchio cuore Toro, col naso schiacciato e la sigaretta sempre accesa in bocca (la pipa sarebbe arrivata in seguito)» [Eraldo Pecci, Il Toro non può perdere, Rizzoli, 2013, pp.63-64]