28 maggio 2012
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Biografia di Totò Cuffaro
• (Salvatore) Raffadali (Agrigento) 21 febbraio 1958. Ex politico. In carcere dal gennaio 2011. Già presidente della regione Sicilia per il centrodestra (eletto nel 2001 e nel 2006, dimessosi nel 2008), quindi senatore (eletto la prima volta nel 2006, nell’Udc, ma subito dimessosi per incompatibilità con la carica di governatore; la seconda nel 2008, dapprima nell’Udc e poi nei Pid, fino alla decadenza nel 2011).
• «Tutta la sua vita è in fondo riassumibile in un paradosso: certe cose che sembrano normali al “suo” popolo di elettori e amici appaiono agli occhi di milioni di italiani mostruose, e certe cose che sembrano a tanti altri mostruose appaiono ai suoi del tutto “normali”. Sempre stato così. Fin dall’autunno del 1991 quando era in platea a Samarcanda in staffetta col Costanzo Show e tanto urlò e strepitò che Michele Santoro gli porse il microfono. Al che, lui, aggiustata la cravatta, protestò che eran tutte “buffonate” e che era “in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore della Dc in Sicilia” e che quello era un “giornalismo mafioso” che faceva “più male alla Sicilia che dieci anni di delitti”. Davanti al televisore, ignaro della bruttissima fine che lo attendeva, sorrideva soddisfatto il massimo rappresentante di quella “classe dirigente migliore” isolana, Salvo Lima. Sul palco, attaccato direttamente, scuoteva sconfortato la testa Giovanni Falcone, che di lì a pochi mesi sarebbe stato assassinato (nel 2013 il Tribunale di Palermo ha però stabilito che dalle riprese «non si evince un attacco diretto di Cuffaro nei confronti del giudice Falcone», condannando Antonio Di Pietro per aver arbitrariamente sostenuto tale tesi sul proprio sito, supportandola con un video montato e commentato ad hoc – ndr). Fu quella sera che i telespettatori scoprirono Totò. E se tanti, al di qua dello Stretto, restarono sbalorditi da quel giovanotto paffutello che si assumeva l’onere di difendere l’indifendibile, tanti altri, di là dello Stretto, si ritrovarono in sintonia con quello sconosciuto in camicia che urlava in difesa dell’onore dei notabili siciliani vittime di “giudici corrotti” e di “un pentito volgare”, cioè Tommaso Buscetta, “solo perché serve al Nord”. Fu quella sera che svoltò, la carriera politica di Salvatore Cuffaro da Raffadali, laureato in Medicina, dottore all’ambulatorio dei ferrovieri, destinato a diventare in una manciata di anni l’uomo forte dell’isola. Una carriera rapidissima. Giocata tutta sulla straordinaria flessibilità che gli permise, nella legislatura più incerta, di restare assessore all’Agricoltura mentre si ripetevano i ribaltoni e prima governava la destra e poi la sinistra e poi ancora la destra. Lui ci rideva su: “Cuffaro viene dall’arabo: kufur. Vuol dire infedele”. E precisava: “Solo che per loro significava colui che si era convertito al cristianesimo. E questo sono: un cristiano e un democristiano”» (Gian Antonio Stella).
• Già ai tempi dell’università «la passione per la politica lo divorava, era tutto fede e Democrazia cristiana, militava nel movimento giovanile, citava don Sturzo e intanto addentava lo sfincione (una pizza ricoperta di cipolle che mangiava ogni mattina a colazione e gli fece cucire addosso il soprannome di “Totò ’a pizzetta”), parlava dei suoi “maestri” Luigi Giglia e Nino Gullotti ma già i suoi occhi brillavano per Lillo Mannino, studiava medicina e sapeva che – un giorno – sarebbe stato il signore della Sicilia. Lo sentiva dentro che l´avevano scelto, che lo sarebbe diventato per diritto ereditario. Veniva dal paese – Raffadali, in provincia di Agrigento – elementari dai salesiani, padre e madre maestri, il fisico perfetto di un piccolo padrino democristiano. Né grasso e né grosso ma molle, di una rassicurante rotondità, mai una parola fuori posto con gli avversari, un tono aspro, un gesto ostile. “Picchì tu ’a capiri... perché tu devi capire...”. Mediava sempre. Trattava ogni volta. Una morbidezza contagiosa che faceva scivolare tutti fra le sue braccia e nella sua trappola. Era ragazzo e già aveva decine di figliocci da battezzare e da cresimare, un’abitudine che non avrebbe abbandonato anche dopo i trionfi. Tanti. La sua scalata è stata prepotente nella giungla della politica siciliana. Consigliere comunale a 18 anni, onorevole alla Regione a 27 anni, primo presidente dell´isola eletto dal popolo a 43 anni. Nel 2001 è governatore, lo votano un milione e seicentomila siciliani. Nel 2006 è ancora governatore, è già sotto indagine per mafiosità e lo votano un milione e trecentomila siciliani. Lui ringrazia e alza lo sguardo al cielo: “Affido la nostra isola alla Madonna”. Il medico non l’ha mai fatto. Dopo la laurea, la specializzazione in radiologia e poi politica e sempre politica. Ha esercitato la professione solo per un anno, durante il servizio militare. Racconta agli intimi: “Facevo le visite di idoneità, i ragazzi si presentavano e io avevo il compito di controllare anomalie ai testicoli. Cento visite al giorno, 500 a settimana, 2000 al mese, 24 mila in un anno: sono un esperto di palle”. Da “Totò ’a pizzetta” a “Puffaro”, poi cominciarono a chiamarlo anche “vasa vasa” per quei baci che distribuiva ai clientes che si radunavano sotto le palme di Palazzo d’Orléans per chiedergli un favore. Una buona parola per ciascuno, un sostegno per tutti. Così lui ha messo in piedi la più grande macchina clientelare mai vista prima in Sicilia, l’assessorato alla Sanità e quello all’Agricoltura trasformati nel suo cortile di casa, i suoi uomini piazzati dappertutto, l’isola il suo feudo. Solo il suo successore è riuscito forse a fare di più, quel Raffaele Lombardo che dopo avere goduto delle influenze di Totò (“e della mia amicizia”, ricorda sempre lui) nel momento della disgrazia l’ha pugnalato alle spalle» (Attilio Bolzoni) [Rep 23/1/2011].
• Fu costretto alle dimissioni dalla presidenza della regione Sicilia il 26 gennaio 2008, otto giorni dopo essere stato condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. Il 30 gennaio la sospensione decretata dal governo gli impedì anche la gestione dell’ordinaria amministrazione fino alle elezioni per eleggere il suo successore. Ascoltata la sentenza, aveva festeggiato a cannoli (in seguito negherà però la circostanza, spiegando di essere stato colto dal fotografo mentre li stava spostando) e provato a resistere. La sospensione decretata dal governo e gli attacchi di Gianfranco Micciché lo persuasero a farsi da parte. Alessandra Ziniti: «Ha rivelato notizie riservate sulle inchieste della Procura grazie alla sua rete di “talpe”, ha aiutato l’imprenditore della sanità Michele Aiello e il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro a eludere le indagini, ma non ha favorito l’organizzazione Cosa nostra nel suo complesso. Cinque anni di reclusione per favoreggiamento e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma basta la caduta dell’articolo 7, cioè dell’aggravante mafiosa, per far sì che Salvatore Cuffaro accolga con lacrime di soddisfazione il verdetto della terza sezione del tribunale di Palermo che pure condanna il presidente della Regione siciliana ad una pena non certo lieve. E l’annuncio è immediato: “Non mi dimetto, da domani sarò al lavoro”».
• Il 23 gennaio 2010 la Corte d’Appello di Palermo lo giudicò nuovamente colpevole, e anzi innalzò a 7 anni la condanna, aggiungendo al reato di favoreggiamento l’aggravante mafiosa. Cuffaro: «So di non essere mafioso e di non avere mai favorito la mafia. Prendo atto però della sentenza della Corte. In conseguenza di ciò lascio ogni incarico di partito. Mi dedicherò, con la serenità che la Madonna mi aiuterà ad avere, alla mia famiglia e a difendermi nel processo, fiducioso in un esito di giustizia».
• Il 14 dicembre contribuì col proprio voto di fiducia a salvare il Berlusconi IV, abbandonando il gruppo parlamentare dell’Udc, schierato all’opposizione, e passando tra i Pid (Popolari di Italia domani), neonata formazione organica alla maggioranza.
• Il 22 gennaio 2011 la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna a 7 anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per favoreggiamento aggravato, nonostante lo stesso sostituto procuratore generale Giovanni Galati avesse chiesto di eliminare l’aggravante mafiosa, giudicandola non provata. Dignitosa e composta la reazione di Cuffaro, immediatamente costituitosi nel carcere romano di Rebibbia: «Sono stato un uomo delle istituzioni, la magistratura è una istituzione e quindi la rispetto anche in questo momento di prova. Affronterò la pena come è giusto che sia: questo è un insegnamento che lascio ai miei figli. Questa prova non è stata e non è facile da portare avanti, ma ha accresciuto in me la fiducia nella giustizia e soprattutto ha rafforzato la mia fede: se ho saputo resistere in questi anni difficili è soprattutto perché ho avuto tanta fede e la protezione della Madonna». Nel borsone per il carcere, numerosi libri («I libri ti serviranno, perché la cosa più importante è l’energia morale», il consiglio di Mannino): tra gli altri, la Bibbia, il Vangelo di Matteo, le Vite dei santi e alcuni romanzi (Guerra e pace di Tolstoj, La montagna incantata di Mann, La fattoria degli animali di Orwell ecc.).
• «Fui preso in consegna da tre uomini del Ros di Palermo. Chissà come mai mi aspettavano a Roma da due giorni, cioè da prima che fosse pronunciata la mia condanna. Uno di loro, nell’auto che mi stava portando a Rebibbia, mi ammanettò. Forse avrebbe potuto farne a meno. Era come se quei ferri mi avessero serrato il cuore oltre che i polsi» (a Fulvio Milone) [Sta 27/11/2011].
• Il 20 aprile la Cassazione l’ha invece prosciolto dall’accusa di abuso di ufficio, mossagli nel 2009 dalla Procura di Palermo per aver assunto senza concorso 23 giornalisti nell’ufficio stampa della Regione Sicilia (nel 2007), incidendo sul bilancio per circa 4 milioni di euro.
• Il 21 marzo 2013 la Cassazione ha definitivamente confermato il non luogo a procedere nei suoi confronti per il cosiddetto processo «Cuffaro bis», con il quale sin dal 2009 i “caselliani” della Procura di Palermo (in particolare il sostituto procuratore Nino Di Matteo) lo avevano imputato di concorso esterno in associazione mafiosa: tutti e tre i gradi di giudizio hanno però rigettato l’impianto stesso del procedimento nel nome del «ne bis in idem», il principio che sancisce il divieto di secondo giudizio nei confronti di un imputato per i medesimi fatti già contestatigli in altro processo.
• È incarcerato nella sezione G8 di Rebibbia, tra i detenuti comuni, in regime di media sicurezza (nessun permesso, solo quattro ore di colloquio e due telefonate al mese), in una cella di quattro metri per cinque insieme ad altri tre uomini (un ergastolano per duplice omicidio e due condannati per traffico di stupefacenti, rapina e truffa). Appena entrato, si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. «Totò Cuffaro bacia e abbraccia tutti anche in carcere: “Ho questa propensione per i rapporti umani, figurarsi se mi sottraggo”» (Antonio Rossitto) [Pan 8/4/2011].
• «Credevo che il carcere fosse come nei film, un concentrato di violenza bruta. Niente di più falso: qui ci sono solidarietà e comprensione, questo è un mondo con regole giuste e che in quanto tali vanno rispettate. Gli altri detenuti mi apprezzano come arbitro nelle partite di calcio. Ho introdotto una nuova regola: chi bestemmia viene espulso dal campo per cinque minuti. Ricevo una quantità incredibile di lettere. Cerco di rispondere a tutti» [Milone, cit.]. «La fede in Dio mi sostiene e mi aiuta. Parlo e scrivo per molti detenuti. Sono come loro ultimo tra gli ultimi» [Grn 7/7/2012]. «Ho fatto mille errori, per i tanti errori fatti meriterei di pagare. Ma, come dice l’Alfieri nel Saul, sol chi non fa non fa uno sbaglio» (a Stefano Di Michele) [Fog 27/10/2012]. «Gli errori che mi riconosco? Troppo disponibile ad abbracciare e baciare la gente, a stringere qualche mano sbagliata senza accorgermene. Se scendi tra la gente, in Sicilia corri sempre il pericolo di sbattere contro la persona sbagliata. E io sono andato a sbattere contro la mafia senza aver mai voluto favorirla» (a Bruno Vespa) [Pan 3/1/2013].
• Nel novembre 2012 è uscito Il candore delle cornacchie (Guerini e Associati), libro scritto in carcere da Cuffaro sulla sua vita, da uomo libero e soprattutto da recluso. «Magro, quasi ascetico, capelli bianchi cortissimi, il detenuto Cuffaro ha passato intere notti ad annotare a matita i dettagli della sua vita carceraria, i riti quotidiani, gli incontri, le migliaia di lettere ricevute, le centinaia di visite di politici. Scrive: “La mia è una morte civile, fortemente voluta, sapientemente costruita, scientificamente realizzata”. E racconta proprio tutto, dalle manette che gli lacerano la pelle a quando gli viene chiesto di spogliarsi di tutto, compresa la catenina ricordo della mamma, “perché in carcere il regolamento non ammette deroghe”» (Francesca Giuliani) [Rep 6/4/2013].
• Il 2 gennaio 2013 non ha potuto assistere ai funerali del padre, morto il 31 dicembre, in quanto il giorno di Capodanno non era reperibile alcun magistrato di turno, per valutare la richiesta di permesso.
• Il 25 novembre i giudici della Corte dei conti di Palermo l’hanno condannato a versare 150 mila euro quale risarcimento per la «grave lesione all’immagine della Regione siciliana in conseguenza del comportamento delittuoso del suo presidente». «Non c’è limite alla fantasia, ovvio. Che la Corte dei conti si eserciti in accanimento su un detenuto, chiamato a pagare per tutti, è tema di Sade» (Il Foglio) [27/11/2013].
• Il 20 dicembre, nonostante il parere favorevole espresso dal procuratore generale e dai responsabili del carcere, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato la sua richiesta di essere affidato ai servizi sociali, motivando il provvedimento con la mancanza di collaborazione alle indagini da parte di Cuffaro: secondo la sentenza, «residuerebbero in lui spazi di svelamento della verità». Rassegnata la reazione dell’ex governatore: «Avevo coltivato la speranza di poter continuare a scontare la mia pena in affidamento al servizio dei più bisognosi, ma i giudici hanno deciso che io debba rimanere in carcere per il resto della pena. Non sono ancora rieducato e risocializzato. Come sempre e come è giusto e doveroso, accetto e rispetto la sentenza».
• In carcere è dimagrito di circa 40 chili.
• «Quello che è stato definito cuffarismo, clientelismo sfrenato, era ricevere fino alle 2 di notte persone che magari aspettavano dalle 2 del pomeriggio e alla fine non mi chiedevano niente, se non di poter dire di aver bevuto un caffè col presidente della Regione» (a Bruno Vespa) [cit.]. «Non è possibile, lo so, ma se tornassi a fare politica rifarei la politica esattamente come l’ho fatta fino al momento del carcere. Per gli altri. Con il cuffarismo che chiamano spregevole, bieco, con l’abbraccio e il bacio. Certo, salvo tutti gli errori che ho fatto…» (a Stefano Di Michele) [cit.]. Preclusagli ogni attività politica dall’interdizione perpetua, una volta uscito dal carcere si ripropone di fare l’agricoltore, nella sua fattoria nei pressi di Piazza Armerina, dove tiene «pecore e capre girgentane della razza di Amaltea che allattò Zeus, e la cavalla Ginevra e otto cani tra i quali due cirnechi dell’Etna di nome Diana e Tolstoj» (Gian Antonio Stella) [Cds 2/12/2012].
• Molto religioso: asilo dalle suore Collegine, scuole dai Salesiani, «a Roma ho fatto la Scala Santa in ginocchio più di una volta, sono stato a Fatima, ho fatto anche Lourdes, Medjugorie, Santiago de Compostela». Fece stampare in tre milioni di copie l’atto di affidamento ufficiale della Sicilia alla Madonna.
• Sposato con Giacoma, due figli: Ida, laureata in Giurisprudenza e aspirante magistrato («una sorta di nemesi storica: è come se mia figlia avesse sconfitto la mia sconfitta» [a Stefano Di Michele, cit.]), ed Emanuele, studente di Medicina. Uno dei due fratelli, Silvio (l’altro si chiama Giuseppe), è stato sindaco di Raffadali dal 2007 al 2012.