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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Bruno Contrada

• Napoli 2 settembre 1931. Ex numero tre del Sisde, ex capo della Mobile di Palermo, ex capo della Criminalpol. Condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa (nel febbraio 2008 la prima Corte d’Appello di Caltanissetta ha rigettato la richiesta di revisione della condanna). Libero dal 2012 per fine pena: «Non porterò, tra non molto tempo, nessun segreto nella tomba. Né di Stato, né di altro genere. Quello che ho fatto è consacrato in atti di polizia. La parte preponderante della mia esistenza al servizio dello Stato la ripeterei, la rifarei tale e quale. Senza rammarico e pentimento. Io non mi considero innocente perché lego sempre questa parola ai bambini o gli do un significato religioso. Io sono “non colpevole”».
• «Ho trascorso la mia infanzia (dai due ai nove anni) in Libia: Derna, Misurata, Bengasi, Tripoli. Mio padre era ufficiale nella Colonia. Ho trascorso la mia adolescenza (dai nove ai dodici anni), in periodo bellico, a Napoli, Roma; quindi, nella Rsi, a Como. Poi, gli anni della giovinezza, non molto spensierata, a Napoli, la Napoli del dopoguerra, la Napoli piegata e piagata. Il ginnasio, il liceo, l’università. Poi, a vent’anni, l’Esercito: l’orgoglio di indossare l’uniforme di ufficiale dei Bersaglieri. Dagli anni Cinquanta agli anni Novanta: Polizia e Sisde. Ventiquattro anni a Palermo: capo della Squadre Mobile, capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, capo di Gabinetto dell’Alto Commissario. Dal 1985 al 1992 a Roma: Direzione Sisde. Una vita per le istituzioni. Una carriera, grado dopo grado, sino a quello ultimo di dirigente generale della Polizia di Stato. Infine, quindici anni (dal 1992 al 2007) di calvario giudiziario» (lettera a Roberto Gervaso sul Messaggero).
• Arrestato all’antivigilia di Natale del 1992 con l’accusa di essere «a disposizione di Cosa nostra» sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola), fu scarcerato nel 1995 dopo 31 mesi di detenzione (in regime di carcerazione preventiva). Ai cronisti che lo intervistavano all’uscita dal carcere: «Sono soltanto un imputato a piede libero, la strada della giustizia sarà lunga» (La Licata). Il 5 aprile 1996, nel processo di primo grado, fu condannato a dieci anni di reclusione (il pm Antonino Ingroia ne aveva chiesti dodici). Il 4 maggio 2001 la seconda sezione della Corte d’appello di Palermo lo assolse con formula piena «perché il fatto non sussiste». A fine 2002 la sentenza fu annullata dalla Cassazione per un vizio di forma ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione. Nuova condanna nell’appello bis (febbraio 2006). Recluso dal maggio 2007 (quando la Cassazione ha confermato la sentenza di condanna) nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il 20 dicembre 2007 l’avvocato Giuseppe Lipera invocò il capo dello Stato perché con un atto «spontaneo» di umanità strappasse il suo assistito, a suo dire gravemente ammalato, al carcere. Precisato che non si trattava di una domanda di grazia (Contrada: «Non chiedo la grazia, dallo Stato vorrei un grazie»), dopo giorni di prevedibili polemiche il presidente Napolitano fece sapere: «Conosco le procedure» e se si tratta di differimento della pena per motivi di salute «è di esclusiva competenza dei giudici». Dichiaratolo sostanzialmente “sano”, i giudici del Tribunale di sorveglianza di Napoli gli negarono anche gli arresti domiciliari. Il 28 luglio 2008, con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute (ha un diabete allo stato terminale e deve seguire una dieta strettissima) gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. L’8 novembre del 2011 la Corte di Appello di Caltanissetta respinse la sua richiesta di revisione del processo e il 5 giugno dell’anno seguente, la Corte di Cassazione ne confermò la decisione. L’11 ottobre del 2012 è stato liberato: fine pena. Era agli arresti domiciliari.
• «Sembrava un poliziotto americano, uno di quei detective che si vedevano solo nei telefilm. I piedi incrociati sulla scrivania, la giacca buttata sulla sedia, la cravatta slacciata, la sigaretta in bocca, la pistola nella fondina di cuoio che a ogni piccolo movimento sgualciva la camicia bianchissima. La notte tra il 4 e il 5 maggio del 1980 ci fu una grande retata, presero una quarantina di mafiosi. Tutti i funzionari di polizia furono contattati a uno a uno dal questore Vincenzo Immordino e rinchiusi in una caserma prima di irrompere nelle case dei boss, tutti tranne uno. Tutti tranne lui che venne tenuto all’oscuro dell’operazione, lui, il capo, il massimo esperto di cose di mafia. Le voci diventarono sempre più forti, mese dopo mese e anno dopo anno. Le diffidenze di Falcone. Certe prudenze investigative. Timori che paralizzavano inchieste. Voci che si inseguivano mentre si apriva una folgorante carriera per “il dottore”» (Attilio Bolzoni). Anche Paolo Borsellino, secondo suo fratello Salvatore, non si fidava: «Paolo disse più di una volta ai suoi familiari parlando di Contrada “solo a fare il nome di quell’uomo si può morire”. (Felice Cavallaro) [Cds 22/2/2010].
• «Le accuse dei pentiti sono come palle di neve. Nascono piccole e a valle diventano valanghe, intere montagne. Così un pentito tira l’altro per la cosiddetta convergenza del molteplice, dove la stessa balla se è detta da due pentiti diventa verità. Quando entri in questo meccanismo sei finito. Il primo ad accusarmi è Gaspare Mutolo. Apparteneva alla cosca Partanna Mondello di Rosario Riccobono, che ho perseguito più di ogni altro gruppo».
• «Su questo enigma del grande Meridione d’Italia che è Bruno Contrada non si sono avventate e non si sono accanite solo la politica e la magistratura, ma anche, e forse più di tutti, quelli di noi che cercano l’univocità nel senso della storia italiana. Nel Sud si è combattuta una guerra non convenzionale dove la forza era data dagli infiltrati: dai mafiosi che si infiltravano nelle istituzioni e dalle istituzioni che si infiltravano tra i mafiosi. È ovvio che facciano scena, in queste guerre, le sfumature tragiche, i mezzi colori inquietanti, i personaggi alla Lawrence d’Arabia, i questurini alla Bruno Contrada» (Francesco Merlo).
• Nel 2010 il Corriere della Sera pubblica alcune foto che lo ritraggono ad una cena insieme ad Antonio Di Pietro 8 giorni prima del suo arresto (avvenuto il 23 dicembre 1992), che scatenano una polemica nei confronti dell’ex pm di mani pulite. «Un incontro casuale e cordiale. “Siamo quasi colleghi perché anch’io sono stato per il passato funzionario di polizia”, mi disse Di Pietro quando capì chi ero». (Felice Cavallaro).
• Il 17 ottobre del 2012 esce il libro scritto con la giornalista Letizia Leviti La mia prigione. Storia vera di un poliziotto a Palermo, nel quale ripercorre la sua vita e la sua vicenda giudiziaria. «Sono stato incriminato, arrestato, processato, condannato, poi assolto e ancora condannato e incarcerato. Di tutte le accuse che hanno infangato e devastato la mia esistenza, nessuna risponde al vero».
• Sposato con Adriana, professoressa di Lettere in pensione, due figli: Guido (avvocato) e Antonio (agente di polizia).
Vive a Palermo.