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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Pietro Citati

• Firenze 20 febbraio 1930. Critico letterario. «Non si è geni se non si conoscono servi e portinaie».
Vita «Io ho avuto una formazione francese. In casa nostra si parlava francese, un po’ come nei romanzi russi. Abitavamo in Liguria, a Cervo, in una casa immensa. Leggevo a sei-sette anni le storie di Madame de Ségur».
• «Come disse un professore a mio padre, ero un alunno negligente».
• «Ero un borghese, mia madre non lavorava fuori casa, e poteva occuparsi di me e dei miei fratelli».
• «Trascorrevo le estati in Liguria (dove Rousseau, Buffon, l’Enciclopedia furono le mie prime letture) ma vivevo a Torino, dove ho passato la mia infanzia. Scuole dai gesuiti, il Liceo d’Azeglio, poi non ressi più la pedanteria, l’ordine piemontese. Andai a Pisa, alla Normale».
• «Alla Scuola Normale, regnava allora una meravigliosa indisciplina, come nelle università medioevali. Spesso, la sera, ci perdevamo nella città, risalivamo i Lungarni, fino a contemplare il Duomo, il Battistero e la torre pendente illuminati dalla luna, mentre i pisani dormivano. Ci fermavamo a chiacchierare e a litigare per ore insieme ai miei simpaticissimi amici-nemici stalinisti. Spesso bevevamo troppo. Quando si avvicinava la mattina, tornavamo alla Normale, ci arrampicavamo sulla grata di una finestra a pianterreno, e infine ci infiltravamo attraverso un’altra finestra che un complice ci aveva lasciato aperto. (…) Alle otto di mattina scendevo quasi nudo, in pigiama e vecchie pantofole, in Biblioteca: firmavo frettolosamente diciotto o venti schede e tornavo carico di libri nella mia camera, grondante di ricordi dei Cavalieri cinquecenteschi. Avevo il sogno infantile della scienza pura: la ricerca appassionata, acuminata, spassionata della verità, quale essa sia, con tutta la bibliografia necessaria» [Rep 11/4/2007].
• «Dopo la laurea mi trasferii per tre anni all’estero, uno a Zurigo con una borsa di studio, due come lettore d’italiano all’Università di Monaco di Baviera, grazie a Gianfranco Contini. Quei due anni in Germania, mentre il Paese era impegnato nella ricostruzione, mi sono rimasti molto impressi».
• Alla metà degli anni Cinquanta tornò in Italia: «A Roma. Dovevo insegnare alcuni anni nelle scuole per poter chiedere di nuovo di essere inviato all’estero. E invece sono rimasto. Io sono uno dei tanti italiani del Nord che ha tradito con gioia la sua terra d’origine e ama immensamente Roma. Ero un insegnante irregolare, trascuravo la Storia e la Geografia, leggevo in classe. Vivere con 49.500 lire al mese non era facile. E cominciai a collaborare sui giornali. Negli anni Cinquanta, scrivevo su il Punto, un settimanale nato per appoggiare il centrosinistra, una specie di Mondo per i poveri. Io facevo recensioni di narrativa, Pasolini di poesia. Più o meno in quel periodo, Livio Garzanti mi offrì una consulenza. Garzanti era un essere insopportabile eppure era un grande editore. Anzi, il più grande editore italiano. Con molto più talento anche di Giulio Einaudi. La passione con cui ha pubblicato il Pasticciaccio di Gadda e con cui l’ha saputo imporre è una cosa straordinaria».
• Scrisse sul Giorno: «Il direttore Italo Pietra aveva inaugurato la pagina letteraria. Usciva il mercoledì, e a settimane alterne ci scrivevamo io e Arbasino. Era circa il 1960, e avevamo trent’anni. Io e Arbasino eravamo completamente diversi. Ci accomunava la passione per Gadda, questo sì. Avevo fama di cattivo, scrivevo pezzi molto feroci. Alcuni ingiusti, altri no, come la stroncatura dello Scialo di Vasco Pratolini. Oggi parlo solo dei libri che mi piacciono».
• Ha scritto sul Corriere della Sera: «Arrivai nel 1973, ai tempi di Ottone. Il primo articolo fu un ritratto di Manzoni che prendeva tre pagine intere. Provocò un grande scandalo, perché parlavo della passione edipica di Manzoni per la madre, dei suoi complessi rapporti con i figli: monsignor Cesare Angelini mi scagliò una maledizione. Ma io avevo carta bianca. Anche per la lunghezza dei miei articoli, che erano sterminati».
• «A metà degli anni Sessanta, cominciò a crescere in me la voglia di scrivere libri. Mi misi a lavorare su Goethe, a cui ho dedicato molti anni».
• «Quando ero giovane, andavo sempre a trovare Emilio Cecchi, nel suo studio vicino alla porta di casa, da dove controllava, credo, l’andirivieni dei macellai, verdurai, formaggiai, postini. Sentiva di abitare nel caldo cuore vivente della casa. Credo che avesse molta simpatia per me: molta meno considerazione per il mio talento di critico».
• «Con Giovanni Macchia avevamo lo stesso tabaccaio, parrucchiere, farmacista, e dentista. Ciò creava tra noi un rapporto strettissimo, molto più grande di quello dato dai libri».
• «Mario Praz era una delle persone più buone e affettuose che abbia mai conosciuto. Dopo tanti anni, mi sento ancora irradiato dal suo affetto e dalla sua gentilezza. Abbiamo lavorato insieme: ho curato due dei suoi libri. Cecchi ha scritto, probabilmente, i più bei saggi letterari del Novecento. Ma, a un certo punto, ha pensato che la letteratura è una cosa così grande che è inutile parlarne. L’opera di Praz è la più folta, ricca, colorata, sensuale del secolo. Per certi aspetti, è la più tragica. Aveva il demone dell’analogia: il dono maggiore di un critico».
• «Gadda veniva spesso a casa nostra. Era cerimoniosissimo, ci portava sempre regali, soprattutto marrons glacés. Con le sue infinite attenzioni sembrava che volesse farsi perdonare qualcosa; e che, per il solo fatto di vivere, si sentisse in colpa verso tutti gli uomini» [nota a C.E. Gadda, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), Adelphi]. «Era un eroe di Plutarco. Per anni mi ha telefonato all’una e mezza impedendomi di mangiare un pasto caldo. Se glielo avessi detto sarebbe cascato il mondo...» [a Paolo Mauri, Cds 30/9/2005]. «Per certi aspetti mi aveva eletto suo padre (io ero infinitamente più giovane di lui); mi chiedeva consiglio per tutte le cose della vita: le tasse, la domestica, il cibo, l’editore, il rapporto con gli scrittori e tutti gli esseri umani». «È stato l’unico grande uomo che ho conosciuto nella mia vita, come profondità tragica di esperienza e di spirito».
• «Non saprei scrivere romanzi: mi mancano completamente i doni della immaginazione e della visione, senza i quali non si possono scrivere. Ho invece il dono della costruzione. Posso raccontare – cioè interpretare raccontando – solo cose che altri hanno già raccontato».
• Libri: Goethe (Adelphi, 1970, premio Viareggio), Alessandro Magno (Adelphi, 1974), Tolstoj (Adelphi, 1983), Kafka (Rizzoli, 1987), Ritratti di donne (Rizzoli, 1992), La colomba pugnalata (Mondadori, 1995), Il male assoluto (Mondadori, 2000), La mente colorata (Mondadori, 2002) ecc.
• Sposato con Elena Londini, un figlio.
Frasi «Sono una persona non molto intelligente».
• «Sono uno scrittore di terz’ordine».
• «Proust aveva il fondu, io più modestamente ho il ron ron».
• «Proust, se mentiva, mentiva per difendersi, arte che pratico anch’io qualche volta».
• «Sono affascinato dagli aneddoti. Gli aneddoti, nella loro assoluta superficialità, rivelano qualcosa di profondissimo».
• «L’assassinio del punto e virgola è molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati, di cui parlano con infinita voluttà i nostri telegiornali. Una lingua deve la propria eleganza alla ricchezza dei suoi strumenti espressivi. Una vera lingua possiede tutti i segni di interpunzione – punto, due punti, punto e virgola, virgole, trattino, parentesi. Nessuno è inutile, perché essi segnano pause più o meno profonde, e danno ritmi diversi alla prosa. Se perdiamo la ricchezza della lingua, diventiamo incapaci di pensare, o di elaborare i nostri pensieri» [Rep 7/4/2008].
• «Il divieto di uccidere e di rubare e di dire falsa testimonianza è molto meno importante, per la società umana, di quello di offendere la consecutio temporum» [Rep 11/4/2007].
• «Se posso dire una cosa ovvia, il grande Louvre è uno dei peggiori, forse il peggiore museo della Terra. Non è un museo, ma un’industria, una fortezza, una cittadella, una Bastiglia, un ministero, una Zecca, uno stadio, una stazione, un aeroporto, una reggia, un lager. Non è fatto per accogliere amanti dell’arte, ma per migliaia di motociclisti, ognuno con il suo casco, che attraversano velocissimamente le sale, senza mettere mai il piede a terra. Un buon museo deve essere piccolo, semivuoto, e silenzioso. Non bisogna ammettervi comitive guidate, né scolaresche festose e indifferenti. Forse alcuni ragazzi si lamenteranno, perché a scuola hanno insegnato loro che “l’inquadramento storico-estetico” è più importante del quadro. I ragazzi si ribellino. Frequentino da soli la Galleria Borghese, o il Musée de Cluny o il Musée Guimet, fermando gli sguardi su un tocco di colore o una linea ardimentosa, cercando di capire senza l’aiuto di nessuno. Poi, in biblioteca, troveranno libri che potranno soccorrere i loro occhi entusiasti» [Rep 11/4/2007].
• «Oggi la lettura tende a diventare una specie di orgia, dove ciò che conta è la volgarità dell’immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità dello stile. Credo che sia molto meglio non leggere affatto, piuttosto che leggere Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho» [Cds 9/3/2012].
• «Un libro cattivo è un libro senza forma. La qualità essenziale di un libro bello è il trionfo della forma» [a Silvia Truzzi, Fat 21/4/2013].
• «I libri concentrano in sé tutto ciò che la vita umana ha di più prezioso: i sentimenti, la tenerezza, le amicizie, gli amori, le passioni per questo e l’altro mondo, le rivelazioni, l’attività instancabile della mente, il pensiero metafisico (senza il quale la letteratura impoverisce), Dio conosciuto ed inconoscibile, il brusio delle ali degli angeli, l’eterno femminino, la confessione, la preghiera; e, certo, gli abissi del male e della disperazione» [Rep 11/4/2007].
• «Scrivere un grande romanzo è la felicità assoluta» [ad Alain Elkann, Sta 11/3/2012].
• «Ogni grande romanzo è nato dall’invenzione di un ritmo, che può essere lentissimo, lento, moderato, frastagliato, spossato, veloce, velocissimo. Il lettore non fa che seguirli nella mente: li intuisce, li fa propri, li fa rinascere in se stesso, provando, ogni volta, una forma diversa di beatitudine temporale» [Cds 22/2/2012].
• «Il vero lettore non legge mai il libro apparente, che splende in superficie, ma il libro segreto, che sta nascosto negli strati più profondi, come negli strati successivi di una torta» [ibidem].
• «Quand’ero ragazzo, il pomodoro era il frutto supremo del Mediterraneo: quando lo mangiavo, ero penetrato dalla sostanza del sole, trasformato in una pianta. Insieme al cattolicesimo, costituiva l’essenza della civiltà mediterranea: stemperava gli eccessi ascetici della religione, invocava indulgenza per i nostri peccati, ricordava che noi siamo, in primo luogo, corpi. Oggi i pomodori sono morti, come è quasi morta la pittura. Spero che la morte della pittura sia temporanea, ma temo che quella dei pomodori sia irreversibile. Non sanno di niente. Con la morte del pomodoro abbiamo perduto moltissimo, assai più di quanto sospettiamo» [Rep 11/4/2007].
• «I veri pomodori hanno un grande pubblico: quasi come i libri di Alessandro Baricco» [ibidem].
• «Il tempo non va frustato come un cavallo riottoso; ma rallentato, sfibrato, ingannato, perché solo il tempo lento può venire assaporato con tutti i sensi. C’è sempre tempo: la morte non giunge mai» [Rep 26/8/2004].
Critica «Considerato il pontefice massimo delle patrie lettere, si occupa rarissimamente di contemporanei. Ciò che lo rende sublime, al di là della sovranità della forma, è l’invidia che provoca fra alcuni colleghi ancora impastati di marxismo e gramscismo, come Alberto Asor Rosa che lo accusa di “proporre con piglio arrogante un’idea sublime della letteratura in realtà a uso delle masse”, o come Cesare Cases che gli rimprovera di “trasformare l’aristocrazia del genio in un articolo di consumo”. Ammirato da Roberto Calasso per “quella mescolanza di insolente drasticità e furiosa passione che in molti suscita irritazione”» (Pietrangelo Buttafuoco).
• «Il dramma ma anche il fascino dei libri di Citati. Lui riscrive per noi Madame Bovary, Delitto e castigo, L’isola del Tesoro. Una situazione paradossale che è stata tradotta anni fa da Ruggero Guarini in una celebre battuta: “A Citati accade spesso di cedere, non si sa se per troppo amore o troppa invidia, alla strana illusione di credersi l’autore di cui parla”. Credo che fra troppo amore o troppa invidia, la vera molla che spinge Citati a scrivere i suoi libri sia alla fine la disperazione. La disperazione che scrittori di quella forza non ce ne siano più, che romanzi di quella bellezza non ne vengano più. Non a caso Citati indugia, spesso splendidamente, sugli scrittori come persone, con una nostalgia quasi fisica» (Antonio D’Orrico).
• «Troppo critico per essere scrittore, troppo scrittore per essere critico, Citati subisce dal suo destino un verdetto ancora più pesante, condannato com’è alla letteratura della Letteratura» (Enzo Golino) [Alfonso Berardinelli, Fog 23/7/2011].
Politica «Da giovane, nel 1951, a Torino votai alle amministrative per Celeste Negarville del Pci. Lo considero, quel gesto, un peccato mortale: anche se non l’ho più commesso, potrei finire all’inferno per questo».
• «Frequentavo la Normale di Pisa. Tutti i giovani erano comunisti. C’era una sorta di dittatura sotto il segno di Delio Cantimori, che pure era una dolce persona. L’atmosfera era irrespirabile, il buon senso comune del Pci intollerabile. Bandita l’ironia, i sentimenti raccomandati erano quelli che rendono la vita grigia, mediocre».
Vizi «Da vecchi siamo vittime delle abitudini: amiamo lo stesso studio, la stessa disposizione dei mobili, lo stesso inchiostro, le stesse passeggiate, gli stessi vestiti, gli stessi aggettivi; e questo irrita i giovani. Ma l’abitudine non è sempre una qualità negativa: ogni parola e gesto ripetuti possono acquistare col tempo un valore simbolico, e irradiare significati attorno a sé. Quei luoghi che rivediamo sempre acquistano, per i vecchi, una qualità affettiva intensissima: passare una volta al giorno davanti ai pini di Piazza di Siena o scendere una volta alla settimana la scalinata di Trinità dei Monti può suscitare emozioni più ricche che fare tre volte il giro del mondo».
• «Sono vanitoso».
• «Faccio quello che mi pare e vedo chi mi pare. Uno dei miei migliori amici è l’antico postino di Giuncarico, in Maremma: non certo perché appartiene al popolo, ma perché è molto simpatico e intelligente».
• «Non ritengo di appartenere alla società letteraria. Andare ad un convegno o assistere a un premio sono, per me, la peggiore delle condanne».
• «È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. Essere soli nella chiesa vuota dà all’anima una quiete e una profondità che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c’è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell’io, l’orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere» [Cds 28/1/2013].
• A Giovanni Mariotti ha spiegato che, per difendersi dai detrattori, si limita a non leggerli. Forse mi danno addosso – insinua – perché li ignoro. Ma «nella maggior parte dei casi li ignoro veramente, perché non conosco i loro libri che potrebbero essere anche belli o bellissimi. Davvero non ho idea di come e di cosa scrivano».
• Grande fan del tenente Colombo: «Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple - con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale - mi affascina fino a questo punto».