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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Massimo Ciancimino

• Palermo 16 febbraio 1963. Imprenditore. Quartogenito dell’ex sindaco di Palermo Vito (Corleone 2 aprile 1924 – Roma 19 novembre 2002), il primo uomo politico condannato per mafia.
Noto alle cronache come Ciancimino jr., viene a conoscenza certa delle compromissioni del padre all’età di diciott’anni. Immancabilmente doveva accompagnare dal barbiere il padre Don Vito, che vi si recava quasi ogni giorno per il rituale della rasatura. Quella mattina d’estate, quando sfogliava svogliatamente “Epoca” e d’un tratto riconobbe nell’identikit di Bernardo Provenzano “l’ingegner Lo Verde”, che spesso e volentieri era ospite a casa loro. Il monito di Don Vito quando il figlio gli chiese conferma che fosse lui: «Ricordati che non è concesso sbagliare, da queste cose non ti posso proteggere neppure io» (Francesco La Licata).
Trattativa Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo sulla c.d. trattativa Stato-Mafia (rinvio a giudizio il 7 marzo 2013), è anche il principale testimone. Quasi tutto ciò che sta ripetendo in aula, lo ha raccontato in un libro intervista a Francesco La Licata (Don Vito, 2010), a partire da Ior e tangenti.
Ior Spesso e volentieri era Roberto Calvi, presso lo Ior, a consegnare a Don Vito le tangenti (nel 1980 una somma imprecisata, proveniente dal più grande erogatore di finanziamenti occulti ai partiti, l’Eni). Anno 1990, presso lo Ior c’era sempre Don Vito a fare da collettore della madre di tutte le tangenti, quella che Raul Gardini pagò per uscire da Enimont guadagnandoci a spese dell’Eni (Don Vito prese in consegna 800 milioni, all’Onorevole Lima il compito di distribuirli tra i vari politici siciliani). Toccava sempre a Massimo accompagnare il padre fino alla farmacia del Vaticano, all’appuntamento coi soliti prelati che lo conducevano fino alla banca (dove Don Vito aveva anche una cassetta personale).
Moro Consuetudine di Don Vito, gli incontri a Roma con Pippo Calò, in genere per questioni attinenti la “messa a posto”, tranne quando sequestrarono Aldo Moro. Per trovarlo fu interessata la mafia, per iniziativa dei cugini Ignazio e Nino Salvo d’accordo con la Dc siciliana del segretario Rosario Nicoletti e Salvo Lima. Calò il covo di via Gradoli pare che lo avesse trovato (con l’aiuto della Banda della Magliana), ma poi non se ne fece niente perché a Don Vito arrivò il contrordine per il tramite dell’Onorevole Attilio Ruffini, pare a seguito di richiesta del segretario nazionale Dc Benigno Zaccagnini. La stessa cosa gli dissero l’ingegner Lo Verde e il signor Franco (il secondo accompagnava quasi sempre il primo, Massimo sapeva solo che era un uomo dei servizi, nient’altro). Pure dagli ambienti della Gladio gli dissero di non andare oltre.
• Arrivò Tommaso Buscetta e le sue dichiarazioni non lasciarono indenne nemmeno Don Vito. Falcone era determinato nell’individuare i beni che aveva accumulato nel tempo e occultato all’estero (in Canada soprattutto). Prima era tutta un’altra storia. «Diceva mio padre che quei tempi, quelli dove tutto avveniva alla luce del sole, erano stati i migliori. Si creava una consuetudine e una vicinanza quasi familiare con le alte sfere della magistratura, fatta di viaggi, cene, feste e incontri a casa di Salvo Lima. Mi fece tanti nomi, mio padre, alcuni dei quali ancora oggi impegnati in ruoli di vertice nella magistratura. Li definiva “avvicinabili”, ciascuno con la propria storia, le parentele, le proprie debolezze e i bisogni (…) Ciò che mi ha detto ho trasferito, oggi, ai pm che mi interrogano».
• Per impedire il sequestro dei beni Don Vito si rivolse all’ingegner Lo Verde e al signor Franco, che a sua volta interessò un professor Di Miceli, commercialista di Palermo. Finì che i periti andarono a dire al giudice che i beni di Don Vito erano di provenienza lecita.
• L’arresto arrivò comunque, il 3 novembre 1984. Ma il signor Franco non smise di interessarsi di Don Vito, a dire di Massimo Ciancimino. Fu grazie a lui che a Rebibbia incontrò Nino Salvo, che sotto la doccia gli disse: «Hai capito di quali romani ci parlò Salvo Lima allora, sull’omicidio di Dalla Chiesa? (…) Ti comunico che a decidere l’assassinio di Dalla Chiesa e La Torre è stato Giulio Andreotti». Così riferì Don Vito ai pm Gian Carlo Caselli e Antonio Ingoia nel 1993 («Vedendomi sconvolto, Nino mi ribatté che Dalla Chiesa sapeva molto sui cadaveri nell’armadio di Andreotti»).
• Il signor Franco raggiungeva Don Vito anche a Rotello, in provincia di Campobasso, dove i giudici avevano stabilito che doveva vivere (nell’84, al soggiorno obbligato, perché era socialmente pericoloso). In quel periodo riuscì a incontrare anche l’ingegner Lo Verde, ma solo a Palermo. Ci pensava sempre quel professor Di Miceli, che si occupava di ottenere i permessi. Finché l’obbligo si soggiorno non si tramutò in divieto di soggiorno (a Palermo), e Don Vito si trasferì a Roma (anno 1989). «Mio padre beneficiò della legge che aboliva il soggiorno obbligato (…) Questa provvidenziale riforma legislativa non era caduta dal cielo. Mio padre non perdeva mai occasione per sollecitare i vecchi amici (…). Più di una volta ne aveva parlato con Salvo Lima e proprio a casa dell’amico aveva incontrato il suo compagno di corrente Mario D’Acquisto, allora sottosegretario alla Giustizia».
• Dalla strage di Capaci non passò una settimana, ricorda Massimo Ciancimino, che lo avvicinò all’aeroporto di Fiumicino il Capitano De Donno (antica conoscenza, da quando dirigeva le perquisizioni in casa Ciancimino). Lo mandava il colonnello Mori (quello che sarà processato – e assolto -, prima per non aver perquisito il covo di Riina, poi per non aver arrestato Provenzano quando avrebbe potuto). La richiesta era incontrare in segreto Don Vito, «per cercare di mettere fine a questa carneficina» (parola di De Donno, secondo Massimo Ciancimino).
• Don Vito era agli arresti domiciliari a Roma. Cominciò un serrato scambio di pizzini con Provenzano alias Lo Verde, mentre gli incontri con il signor Franco (una volta perfino con Provenzano), avvenivano con agio a Roma. Massimo Ciancimino a fare la spola in aereo tra Roma e Palermo, bisognava coinvolgere anche Riina. Intermediario Antonino Cinà (di professione medico, andava per la migliore tra i latitanti, tutti suoi clienti). Prima di darsi tanto da fare Don Vito volle sapere da De Donno qual era la copertura. Risposta: «Ne sono al corrente gli onorevoli Rognoni e Mancino» (così disse Don Vito al figlio, ma loro negano).
• Papello Massimo Ciancimino ricevette il “papello” da Cinà a Mondello, di gran fretta, perché quello non era nemmeno riuscito a trovare parcheggio. Era l’ultima settimana del giugno 1992. Col nome “papello” in Sicilia intendono la pergamena con su scritte filastrocche oscene in latino maccheronico, conferita alle giovani matricole degli atenei siciliani in cambio del pagamento di una tassa agli anziani quando si festeggia il loro ingresso in facoltà. Il papello che Riina fece pervenire a Don Vito stabiliva la tassa che lo Stato avrebbe dovuto pagare alla mafia, in cambio della cessazione delle stragi (il primo a parlarne in questi termini, Giovanni Brusca, dopo essersi pentito). Il papello di Riina era inaccettabile («minchiate», liquidò Don Vito), lo ammetteva anche Provenzano, e tutti speravano che quello si accontentasse di qualcosa di meno («Il nostro amico è molto pressato», scriveva Provenzano). Don Vito, con l’approvazione di Provenzano, scrisse un contropapello (tra le modifiche, invece della revisione del maxiprocesso, un processo a Strasburgo). Massimo Ciancimino l’ha consegnato ai pm. Un foglio in formato A4, con una nota manoscritta da Don Vito su un post-it giallo: «Consegnato, SPONTANEAMENTE, al Colonnello dei Carabinieri MARIO MORI dei R.O.S.». Ma Riina alzò il tiro (strage di via D’Amelio, 19 luglio 1992).
• A quel punto, sostiene Massimo Ciancimino, comincia la seconda fase della trattativa. Provenzano, attraverso Don Vito, avrebbe aiutato i R.O.S. a catturare Riina. Massimo ricorda distintamente la mappa fatta pervenire da Provenzano per individuare il covo del latitante. Ma il 19 dicembre 1992 Don Vito viene arrestato, e dal carcere di Rebibbia, usando il telefono di De Donno, chiama Massimo per dirgli di consegnare la mappa, rassicurato, anche in carcere, dal signor Franco e da Provenzano, che tutto si sarebbe sistemato.
• Il 15 gennaio 1993 Riina viene arrestato, fatto arcinoto nessuno si curò di perquisire nell’immediatezza il covo. Secondo Massimo a quella data gli interlocutori di Provenzano cambiano e Don Vito capisce di essere stato estromesso, anche se in carcere i rapporti col signor Franco, e quindi con Provenzano, continuano e lui viene a sapere, a dire di Massimo Ciancimino, che adesso «Lo Verde era entrato in contatto con la nuova politica di Silvio Berlusconi», attraverso Marcello Dell’Utri.
• Don Vito muore la notte del 18 novembre 2002. Massimo Ciancimino solleva il dubbio che sia stato ucciso. Diverse le anomalie: sconosciuta la causa della morte (gli esiti dell’autopsia a cui è stato sottoposto non sono mai stati comunicati); i moldavi che badavano a lui sono scomparsi nel nulla; sul proprio telefono cellulare Massimo ha trovato una chiamata persa dal telefono del padre delle due di notte (unica informazione che è stata data, invece, l’ora del decesso risale a un’ora prima).
• Ai funerali Massimo Ciancimino è stato avvicinato dal signor Franco, che nel fargli le condoglianze, gli ha riportato quelle di Provenzano, scritte in un pizzino.
• Infanzia Ultimo dei quattro figli maschi, a lui Don Vito riservava le punizioni peggiori. Per ogni brutto voto una settimana di clausura nello sgabuzzino che faceva da spogliatoio al personale di servizio, unica compagnia il libro Cuore (a Massimo era consentito uscirne per mangiare a tavola – da solo -, e per andare a dormire). Massimo della pena quando fu rimandato in terza media: catena di diciannove metri e due lucchetti resistenti (due mandati a entrambe le gambe, i sedici metri di rimanenza bastavano esattamente a raggiungere il bagno).
• Campanelli Per chiamare i figli Don Vito usava il campanello, a ognuno corrispondeva un numero di squilli in ordine di nascita (quattro per Massimo, ultimogenito, mentre Luciana, la sorella minore, era esentata in quanto femmina. La servitù accorreva al suono prolungato). «Pure nella classifica del campanello stavo all’ultimo posto. D’altra parte sono stato sempre il più piccolo, per questo mi ero conquistato il nomignolo di “Nano”, che mi è rimasto per sempre. Ma ne sono fatto una ragione, fino a riuscire a scherzarci su dicendo che ero stato fatto con gli scarti e per questo ero il più piccolo».
• Moloch «A lui, il Moloch, ho anche provato a volergli bene, a capirlo, a giustificare, specialmente da ragazzino, molti dei suoi gesti incomprensibili. Giuro, nonostante tutti i miei sforzi non ci sono mai riuscito. La cosa più triste è che ancora oggi non riesco ad avere nostalgia di un sol giorno trascorso insieme. Non ricordo un abbraccio spontaneo, una parola dolce e così, in assenza di queste parole, sono riuscito a consolarmi persino con il suo “testa di cazzo”».
• Nel processo sulla trattativa è imputato anche di calunnia aggravata nei confronti di Gianni De Gennaro, ex capo della Polizia, per averlo accusato di avere intrattenuto rapporti illeciti con Cosa Nostra. «Dietro di lui c’è un puparo. E non è lo spirito di don Vito. Il puparo è chi lo ha scaraventato nella fossa di Palermo per imbrogliare indagini, disonorare galantuomini. È da anni che il puparo tira i fili e Massimo Ciancimino a comando rovescia le sue accuse, a singhiozzo o tutte d’un fiato (…) Il puparo e il pupo ad un certo punto hanno fatto un passo falso. È saltato fuori un nome che ha segnato l’inizio della fine della “super-testimonianza” di Massimo Ciancimino: il nome di Gianni De Gennaro. Quando quel nome è stato accostato direttamente al “signor Franco” (un uomo degli apparati dello Stato che, secondo Ciancimino, sarebbe stato al fianco di don Vito per almeno 30 anni), si è decisa la sorte di questo pentito non pentito che ha tenuto in una morsa la Procura di Palermo per quasi tre anni. Troppo al di sopra di ogni sospetto De Gennaro, troppo eccellente, troppo inverosimile – al tempo delle stragi Falcone e Borsellino – la partecipazione dell’ex poliziotto a capo di tutte le spie d’Italia nell’intrigo della trattativa fra Stato e mafia» (Attilio Bolzoni) [Rep 22/4/2011].
• Per il reato di calunnia era stato arrestato il 21 aprile 2011. Due giorni dopo, durante l’interrogatorio di garanzia, nel tentativo di dimostrare la sua buona fede fornì indicazioni che consentirono agli inquirenti di ritrovare nel giardino della sua abitazione di Palermo tredici candelotti di dinamite, ventuno detonatori e due micce: stando alle sue parole, gli sarebbero stati recapitati tempo addietro a scopo intimidatorio, ma, anziché denunciare il fatto, li avrebbe dapprima bagnati al fine di disinnescarli, e quindi sotterrati, «per non allarmare i familiari». Subito indagato per detenzione di esplosivo, nell’ottobre 2013 è stato rinviato a giudizio.
• Il 5 ottobre 2011 è stato condannato in via definitiva per riciclaggio (alla pena di anni due, mesi dieci, giorni venti di reclusione. • All’indomani dell’apertura del processo sulla trattativa, il 29 maggio 2013 la Procura di Bologna l’ha fatto arrestare con l’accusa di associazione a delinquere, frode ed evasione fiscale (stimata intorno ai 30 milioni di euro), in relazione a una rete di società attive nel commercio di acciaio a lui riconducibili. • L’8 giugno la Procura di Roma ha disposto il sequestro di una discarica di Bucarest, la più grande d’Europa, gestita dalla Ecorec, società romena nella quale secondo i magistrati Ciancimino avrebbe investito buona parte del tesoro paterno.
• Nel febbraio 2014, al processo sulla trattativa, ha annunciato di volere rivelare alla magistratura un conto svizzero di dodici milioni di euro, mettere a disposizione della magistratura 12 milioni appartenenti alla madre. «Spetterà ora agli inquirenti capire che origine abbiano. E soprattutto se il famoso tesoro di don Vito è davvero tutto qui» (Giuseppe Pipitone, “Il Fatto quotidiano”, 7 febbraio 2014).
• La lettera anonima pervenuta alla Procura di Palermo all’inizio del 2013 che rivelava piani omicidiari non solo contro il PM Nino Di Matteo, ma anche contro Massimo Ciancimino. Il 27 maggio, all’apertura del processo sulla c.d. trattativa, Ciancimino ha chiesto di leggere un’altra lettera anonima, che gli sarebbe arrivata tre giorni prima. «Non abbiamo ostacoli nel colpirvi quando sarà necessario, i nostri amici ci hanno assicurato un sicuro risultato. Ascolti un buon consiglio, abbandoni questa sua battaglia inutile, possiamo schiacciarla come e quando vogliamo. Oggi il presidente Napolitano rappresenta una garanzia di una stabilità già gravemente compromessa. QUESTO PROCESSO IMBARAZZA TUTTI» (a cura di Paola Bellone).