28 maggio 2012
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Biografia di Vincenzo Chiodo
• San Giuseppe Jato (Palermo) 12 febbraio 1963. È l’uomo che, per ordine di Giovanni Brusca, ha ucciso il bambino Giuseppe Di Matteo e ne ha poi materialmente sciolto nell’acido il cadavere. Pentito, a suo tempo mafioso, affiliato al mandamento di San Giuseppe Jato. Sposato, con figli.
• Ogni volta che Giovanni Brusca (capo mandamento di San Giuseppe Jato) glielo ordinava, gli faceva sparire i cadaveri delle sue vittime. Nel novembre 93, con la massima urgenza, quando Gioacchino La Barbera, il capofamiglia di Altofonte, a nove mesi dall’arresto, si pentiva, e per dimostrare ai giudici quanto era sincero, indicava i luoghi di sepoltura di quattro persone, a Chiodo non rimase che disseppellire i cadaveri in avanzato stato di decomposizione e gettarli nei cassonetti della spazzatura di vari paesi per non farli trovare (nell’incombenza aiutato da Giuseppe Monticciolo).
• Nell’ottobre 94, quando arrivò il giorno di uccidere Girolamo Palazzolo (sospettato di appartenere al clan di Baldàsarre Di Maggio, «quell’infame»), invece si sentì male, e così anche quella volta si limitò a far sparire il cadavere (dandolo alle fiamme).
• Esegue personalmente il suo primo (e ultimo) omicidio strangolando Giuseppe Di Matteo, di anni 15 (vedi Mario Santo Di Matteo), addì 11 gennaio 1996. Chiodo (insieme a Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Brusca), custodiva il ragazzino in un bunker progettato dal Monticciolo, scavato sottoterra in una casa di campagna a Giambascio, vicino a San Giuseppe Jato (si accedeva dalla cucina, attraverso una piattaforma mobile telecomandata, costituita da quattro mattonelle). Nel pomeriggio di quel giorno Monticciolo rientrava dal covo di Giovanni Brusca (in Fondo Patellaro), con due bidoni da venti litri pieni di acido nitrico, e con la notizia che Brusca gli aveva ordinato di liberarsi del cagnolino, cioè di uccidere Giuseppe («Giuvanni dissi can un si ‘nni parla: s’avi a fari ca s’avi a fari»). I tre fanno passare il pomeriggio, e prima di eseguire l’ordine, per non rovinarsi l’appetito, si fanno alcune bistecche di manzo alla griglia. Quindi scendono, portando seco l’acido, un fusto e una corda. A Chiodo l’onore di strangolare Giuseppe, mentre gli altri due lo tengono per le spalle, ma inutilmente, la vittima non avendo più la forza di opporre resistenza (si sciolse «come burro», come sarà detto al processo dagli assassini). Quindi, dopo averlo svestito, calano il cadavere nel fusto e ci versano l’acido (piano piano per non bruciarsi). A delitto compiuto Brusca e Monticciolo baciano sulle guance Chiodo («Come per farmi gli auguri di Natale», dirà pentendosi), e se ne vanno a letto. La mattina dopo tocca a Chiodo scendere sotto terra per prelevare il fusto, ma non si respira là sotto. Giusto il tempo di cambiare l’aria, Chiodo si riaffaccia, ma vedendo spuntare una gamba di Giuseppe, questa volta da solo, rimesta tutto con un bastone, e in attesa che si sciolga anche quella, porta su maglietta pantaloni e materasso, e va all’aperto a bruciare tutto in un falò. Intanto l’acido ha disciolto anche la gamba, in superficie è rimasta solo la corda. «To’, tienitela come trofeo!», dirà Enzo Brusca a Chiodo prima di buttarla nel falò.
• «Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte» (Vincenzo Chiodo, deponendo davanti alla Corte d’Asisse, nell’aula bunker di Mestre).
• Dopo due settimane partecipa alla fase preparatoria dell’omicidio di altri tre innocenti, Giuseppe Giammona e i coniugi Giammona-Saporito (vedi Giovanni Francesco Riina).
• Si costituisce pochi giorni dopo l’arresto di Giuseppe Monticciolo (arrestato nel febbraio 1996, e immediatamente pentito).
• Nel 2004 viene condannato in via definitiva a quindici anni di reclusione per associazione mafiosa, e per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il suo sequestro e la distruzione del cadavere (la Cassazione conferma la sentenza di secondo grado rigettando l’impugnazione di Chiodo che invocava una pena più mite, proposta a mezzo di difensore pagato dallo Stato secondo la normativa del programma di protezione prevista per i collaboratori di giustizia). Nel 2005 è stato condannato in via definitiva a dodici anni di reclusione per concorso nell’omicidio di Giammona Giuseppe e dei coniugi Saporito-Giammona.
• Non aveva ancora scontato neanche un giorno di carcere, non essendo state ravvisate esigenze cautelari (con le sue dichiarazioni, anzi, faceva arrestare numerosi mafiosi), e aveva ottenuto, il 20 novembre 2007, gli arresti domiciliari. Il 9 luglio 2008 la Cassazione ha però accolto il ricorso della Procura di Palermo, ordinando la sua carcerazione (a cura di Paola Bellone).