28 maggio 2012
Tags : Germano Celant
Biografia di Germano Celant
• Genova 1940. Critico d’arte. Considerato l’inventore dell’Arte Povera «la prima vera squadra dell’arte italiana a giocare nel campionato contemporaneo» (Francesco Bonami).
• Senior Curator per l’Arte contemporanea del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, responsabile della rubrica Arte per L’espresso, curatore della Fondazione Prada. È stato codirettore artistico della prima edizione della Biennale di Firenze nel 1996 e curatore della 47ª Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia (1997). Nell’ambito dell’Expo 2015 di Milano, curatore di Art & Food, mostra dedicata al rapporto tra arte e cibo.
• «È il critico d’arte italiano più noto a livello internazionale, e probabilmente anche il più potente» (Fiorella Minervino).
• «Mi sono inventato, facendo di tutto. Mi sono buttato su libri e cultura. A 16 anni leggevo Sartre, mi identificavo con Beckett. Frequentavo gli artisti locali che mi presentavano i personaggi di passaggio. La cultura mi serviva per trovarmi un’identità. Per due anni ho frequentato la facoltà di Ingegneria per compiacere mio padre, poi ho lasciato, mi sono inventato i cineforum dove veniva invitato Bernardo Bertolucci. Mi interessava la cultura visiva in generale, decisivo fu l’incontro all’università con Eugenio Battisti, che ci spiegava il Barocco come intreccio fra tutte le arti. Con lui conobbi Maurizio Calvesi e un giovanissimo Paolo Portoghesi, facevo le news sulla rivista Marcatré. A Torino incontrai Arturo Schwarz che mi introdusse a Duchamp e a Man Ray, e conobbi Mario Tazzoli e Gian Enzo Sperone: avevamo la stessa età, mi presentarono Warhol, poi la Pop Art. L’Arte Povera nacque per una specie di complicità generazionale. Diventai amico di Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giovanni Anselmo, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio, Kounellis già negli Anni Sessanta. Arte Povera era l’idea di chi non ha soldi, quello che trova va bene, carbone, fili di ferro, tela o altro. Contavano lo spirito libertario, la liberazione dai tabù. Nel 1967 organizzammo l’evento di Amalfi, mostra che cattedratici come Giulio Carlo Argan raccomandavano di non visitare. Fu un successo perché mi aprì le porte dell’America. Avevamo un’idea ottocentesca, romantica, dell’arte e della qualità, applicate al design o alla moda».
• «Un anno prima che scoppiasse il famoso 68, in Italia un giovane curatore di nome Germano Celant annusò puzza di bruciato, capendo che ben presto l’arte, fatta di quadri e sculture, non sarebbe stata più di moda. Chi avesse voluto fare l’artista avrebbe dovuto fare un po’ anche il guerrigliero. Nel resto d’Europa, in particolare in Germania con lo sciamano sciamannato Joseph Beuys, che usava grasso, feltro e salsicce per le sue sculture, che i tempi stessero per cambiare lo si era già capito, mentre in Italia la gente si scaldava ancora alla fascina del boom economico. Genovese di nascita e leggermente sparagnino (taccagno) d’animo, Celant, anche se leggermente in ritardo sul resto d’Europa, il tempo lo prevede prima dei suoi amici e colleghi ialiani, e con un articolo su Flash Art intitolato “Appunti per una guerriglia” nel novembre del 1967 lancia il movimento dell’Arte Povera, nome che di per sé garantiva subito un certo risparmio di mezzi e di spese. Da dove sia venuto il nome arte povera, a parte dalla possibile cautela economica del critico mentore del movimento, non si è mai veramente saputo. Alcuni sostengono che il nome fosse un riferimento ai materiali usati dagli artisti. I coinvolti nel gruppo di guerriglieri creativi di Celant, il Renato Curcio dell’arte, erano quattordici: Giovanni Anselmo, che usava l’insalata, Alighiero Boetti, mago dei disegni a penna biro, Pier Paolo Calzolari, che utilizzava i tubi dei freezer per congelare oggetti, Luciano Fabro con i suo lenzuoli, Piero Gilardi con gli orti di gommapiuma, Jannis Kounellis, che usava il cotone grezzo, Mario Merz, che riciclava il suo impermeabile e la sua macchina, una Simca 1000, Marisa Merz che faceva delle scarpette da ballerina con del filo di rame lavorato all’uncinetto, Giulio Paolini, che esponeva semplicemente il retro delle tele, Pino Pascali, che costruiva un ponte sospeso intrecciando pagliette di metallo per pulire i tegami, Giuseppe Penone, che ritrovava nelle travi di legno l’albero da cui erano state ricavate, Michelangelo Pistoletto, che usava gli specchi, Emilio Prini, che, simbolicamente, non faceva nulla e Gilberto Zorio che realizzava strutture di diversa forma usando tubi dalmine. Alcuni di questi artisti, compreso il loro critico, sono diventati molto ricchi, atri benestanti, alcuni sono rimasti poveri, uno, Pascali, è morto prima di poter fare la dichiarazione dei redditi, in un incidente di motocicletta» (Bonami). Al culmine del successo dell’Arte Povera, cominciò a occuparsi di altro: «Il riconoscimento c’era stato e allora capii che per me era importante chiudere. Perfino Guttuso arriverà a dire “Viva l’arte povera”. È chiaro che si apriva un’altra stagione. Le avanguardie hanno una loro parabola: muoiono quando finiscono di essere dirompenti. A quel punto non si aveva più la necessità di dare un nome al movimento, l’esperienza di gruppo era finita. E poi, sia chiaro, non avevo nessuna voglia di rimanere Mr. Arte Povera per tutta la vita» (a Raffaella De Santis) [la Repubblica 22/9/2011] (a cura di Lauretta Colonnelli).