Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Carlo Cecchi

Firenze 25 gennaio 1939. Attore. Ha vinto l’Ubu nel 1987, 1992, 1995, 1999. «All’inizio era una coppa, poi una piastrella pesantissima: naturalmente ho sempre fatto in modo di dimenticarla in albergo».
Vita «Sono rimasto orfano di padre a 10 anni. A 17 ho lasciato la città. Non ho più nessuno qui, anche parlare fiorentino per me è diventato innaturale. I miei primi ricordi sono quelli della casa della mia balia: mi hanno portato via da lei quando avevo due anni. È il dolore fondamentale della mia vita. Le altre perdite non sono state che ripetizioni di quella» (a Giulia Calligaro).
• «Mia madre, rimasta vedova, dovette rimettersi a lavorare. Faceva la modista e ricordo che in casa a Firenze ricevevamo una rivista parigina. Si chiamava Chapeaux, cappelli. Lì prendeva idee per le creazioni che le signore fiorentine acquistavano con slancio. Ogni tanto mi chiedeva di provare i cappelli e io, adolescente, per farlo esigevo denaro. Lei protestava, ma alla fine me lo dava. E tanto, pure, poverina».
• «Dopo Eduardo De Filippo, che ha saputo dirgli “recita in napoletano” e liberarlo dal peso delle scuole (esordì con lui e i suoi primi passi di attore-regista furono memorabili messinscene delle farse di Antonio Petito), è tra il sodalizio con la sua grande amica Elsa Morante (1912-1985) e quello con Cesare Garboli che il teatro di Cecchi si è evoluto» (Goffredo Fofi).

• «Elsa aveva una sensibilità teatrale gigantesca. Era la mia consulente principale e mi ha assistito nel passaggio da Petito a Brecht, Majakovskij, Bückner, quando le influenze che subivo erano soprattutto dell’avanguardia russa, Mejerchold, Vachtangov, e prima che arrivassi ai tre moderni che ho rappresentato di più, Beckett, Pinter e Bernhard. Ma era lei a insistere perché facessi Amleto. Diceva: “Il fatto stesso che resisti così tanto vuol dire che in realtà è quello che vuoi fare e che però ti fa paura fare”. Ad Amleto sono arrivato timidamente grazie alla traduzione di Garboli, che già mi aveva indirizzato verso Molière. Fu lui a spingermi verso Il borghese gentiluomo, “Guarda che Molière non è quello che ti hanno insegnato all’Accademia” mi diceva. Dal Borghese gentiluomo in poi, una rivelazione. Ma anche Shakespeare... è un tale piacere fare Shakespeare! E l’attore deve pur godere, no?».
• «Nel suo modo di fare teatro la storia è tutto. Anche quando è piccola e nostrana come Le statue movibili di Antonio Petito che nel 1971 segnò il debutto della sua mitica compagnia, il Granteatro, nella cantina romana del Beat 72. O quando è immensa, come i tre Shakespeare (Amleto, Sogno di una notte d’estate, Misura per misura) messi in scena durante i sette anni – dal 1996 al 2002 – trascorsi al Teatro Garibaldi di Palermo. La storia c’è sempre anche nei Pinter, nei Bond, nei Bernhard, nei Büchner che, dagli anni Sessanta a oggi, Cecchi è stato spesso il primo a rappresentare in Italia» (Laura Putti).
• «Ho pensato, come alcuni a metà degli anni Sessanta, che si potesse reinventare un teatro, rifiutando quello degli Stabili, e quindi rivolgendomi ad altre esperienze, fra le quali sono state fondamentali quella del teatro napoletano e quelle delle avanguardie europee, Living Theatre ecc. Sono stato segnato da questa origine. La contrapposizione teatro borghese-teatro antiborghese era frutto dell’estremismo degli anni Sessanta, ma mi è servita per capire alcune cose non solo sul fare teatro, ma anche sul suo rapporto con la società, e quindi con le istituzioni che lo gestivano. Un rapporto che si è deteriorato e le cose sono andate sempre peggio. Il processo ha coinvolto la recitazione con la proliferazione delle scuole. Al nostro tempo ce n’erano tre: l’Accademia nazionale d’arte drammatica, il Centro sperimentale di cinematografia, la scuola di Alessandro Fersen. Forse quella di Milano. Adesso ce ne saranno trecento, forse tremila in Italia. Chi le ha fatte proliferare? I vari assessori, sottosegretari, questa robetta qui... Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta».
• Ai giovani attori insegna innanzitutto, ad ascoltare. Poi a dimenticare la parte: «Se tu attore ascolti, e conosci la parte, dopo aver ascoltato farai in modo che la tua battuta nasca da sé, in quel momento. Naturalmente per ottenere questo occorre un grande training. Occorre abbandonarsi e abbandonare la paura. E rischiare. Anche di non essere un attore» [Franco Marcoaldi, Rep 15/7/2011].
• Dal 2003 al 2007 ha portato in scena Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello in cui ha curato regia e interpretato la parte del regista. Nel 2007 è stato Orgone nel Tartufo di Molière (Cordelli: «Asciutto, credibile, svelto. Sottilmente e nemmeno tanto sottilmente Cecchi prende le distanze dal suo personaggio, lo deride, non ne coglie la disgrazia, così lasciando noi spettatori delusi, per l’impossibilità di credere in alcunché. Fin dal primo minuto, non possiamo prendere nulla sul serio»). Nel novembre dello stesso anno, per la riapertura del Teatro Franco Parenti ristrutturato, ha messo in scena due atti unici Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me di Thomas Bernhard e Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo. «Nel Bernhard di Cecchi c’è la grandezza beckettiana del quotidiano che si fa metafora, un’ossessività scespiriana e un “guittume” che si fa arte» (Magda Poli). Fra le tante, nel 2010 è stato regista e attore di Sogno di una notte di mezza estate e nel 2013 ha interpretato Edipo per La serata a Colono di Mario Martone, che ha vinto il Premio dell’Associazione nazionale della critica teatrale 2013.
• Sulla popolarità che gli è venuta dall’interpretazione del professor Caccioppoli in Morte di un matematico napoletano (Mario Martone, 1992), insignito del premio speciale al Festival di Venezia, ha raccontato a Giulia Calligaro: «A Napoli un giorno uno mi ferma: “Io lo so chi siete voi: Enrico Fermi”. E io: “Isso”».
• Tra i film da ricordare anche La scorta (Ricky Tognazzi, 1993), Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996). Memorabile anche, nel film-tv di Michele Soavi L’ultima pallottola (2002), l’interpretazione del serial-killer Donato Bilancia (vedi scheda). • Tra gli ultimi ricordiamo: Arrivederci amore, ciao di Soavi (2006), Seta di François Girard (2007) e Io sono con te di Guido Chiesa (2010). Infine nel 2013, con la regia di Valeria Golino, è nel cast di Miele e Vi perdono.
• Da tempo trascorre buona parte dei suoi giorni tra Parigi e il Camerun: lo fa, dice, per ecologia mentale. Nella capitale francese ci va volentieri perché «è una città comoda»; nello stato africano perché vi circolano «un’energia e una vitalità impensabili da noi. Anche se qualche segnale nuovo chissà, forse sta maturando» [Marcoaldi, cit.].
Critica «Cecchi tende a nascondersi, a mettersi in ombra, a sparire negli angoli; a rattrappirsi; e là, nei suoi angoli, lascia che ondate sadomasochiste si scatenino rovesciandosi con una violenza che si esercita e si abbatte contro di lui. Ho visto Cecchi ingobbirsi, curvarsi sotto i colpi di sferze inesistenti; e l’ho visto perfino impegnato, al centro del palcoscenico, nello sforzo meno appropriato per un attore, lo sforzo di rendersi immateriale» (Cesare Garboli).
Frasi «Alla lettera: l’organizzatore di teatro in Italia è in primo luogo un piazzista».
• «I più grandi registi che ho visto sono inglesi: Peter Brook, Peter Hall... Non hanno mai abbandonato il rapporto immediato, artigianale con il fare teatro; non si sono mai lasciati fuorviare da troppe letture critiche».
• «Il cosiddetto grande regista, tutto maiuscolo, ormai è già tramontato. Al pubblico non gliene fotte niente. E chi sa che non sia meglio».
• «Quando il pubblico, che sarà pure rimbecillito, si trova di fronte a un evento teatrale immediato, ridiventa pubblico. Non sta in quella specie di penombra semiaddormentato».
• «Io non vorrei più recitare, ma c’è quel buzzurro, quell’animale, che mi costringe. È un selvaggio e non guarda in faccia a nessuno. Si sente bene soltanto su un palcoscenico. Il problema è che quell’altro non può fermarlo. Sono due. La deliziosa coppietta che mi abita. Uno vorrebbe restarsene in casa a leggere, studiare, ascoltare musica. Tranquillo, solitario, telefoni staccati. L’altro invece spinge, strattona, fa un casino del diavolo. Ha bisogno di recitare, ha bisogno di pubblico».
• «Fin da ragazzo ho sofferto di noia. Elsa Morante mi diceva “sai perché ti annoi? Perché sei noioso”. La verità è che la noia per me è un vizio congenito. Un peso che sento ogni qualvolta mi accorgo che la vita è ripetizione. Alzarsi e fare le stesse cose è per me spaventoso. Non è depressione. È la noia nel senso in cui la intendeva Baudelaire. Tanto è vero che cessa quando entro in teatro» (ad Antonio Gnoli) [Rep 24/2/2013].
Politica Nella campagna elettorale del 2001 accettò di fare parte della giunta in pectore del forzista Francesco Musotto, candidato a sindaco di Palermo: «Avrei fatto l’impossibile per salvare il teatro. Però mi divertii molto. Assistevo a decine di riunioni della “would be” giunta, tutte in palermitano stretto. Mai riuscii a capire una sola parola».