28 maggio 2012
Tags : Mario Capecchi
Biografia di Mario Capecchi
• Verona 6 ottobre 1937. Premio Nobel per la Medicina 2007, quarto italiano della storia dopo Camillo Golgi (1906), Renato Dulbecco (1975) e Rita Levi-Montalcini (1986). «Italiano Mario Capecchi? Sì certo, italiano perché nato a Verona, ma tutto finisce lì. Per il resto si direbbe che dall’Italia egli abbia avuto solo calci in bocca: la madre gli viene arrestata dalla Gestapo nel 1941 (in Italia: alla faccia dell’orgoglio nazionale così caro al fascismo), poi bambino gira ramingo qua e là, viene ospitato da qualcuno ma subito dopo cacciato, per ricongiungersi finalmente con la madre a guerra terminata e lasciare una buona volta, e per sempre, la cara patria. La quale ora dovrebbe chiedergli scusa, non cercare di farsi bella con onori che non le spettano» (Ernesto Galli Della Loggia).
• «La sua rocambolesca odissea esistenziale parte da Verona, la città dove nasce il 6 ottobre 1937. Sua madre è Lucy Ramberg, suo padre Luciano Capecchi, ufficiale e fascista convinto. “Il loro fu amore a prima vista, ma per fortuna mia madre decise di non sposarlo”, racconta. Mentre il padre moriva in guerra come pilota nell’aviazione di Benito Mussolini, lei militava tra le file dei Bohemiens, un gruppo francese antifascista e antinazista conosciuto quando insegnava letteratura alla Sorbona. Nel 1941, mentre viveva col piccolo Mario in uno chalet in Alto Adige, Lucy venne arrestata dalla Gestapo e deportata a Dachau come prigioniera politica. Prima di partire la donna affidò il bambino, che aveva circa tre anni e mezzo, ad una famiglia di contadini sudtirolesi. “Li ricompensò con il ricavato della vendita di tutti i suoi averi”, spiega Capecchi. I primi anni nella fattoria furono sereni. “Li aiutavo a mietere il grano, a pigiare l’uva, a infornare il pane”. Poi, un bel giorno, i soldi finirono e il piccolo venne messo alla porta dalla famiglia adottiva. “A cinque anni mi ritrovai a girovagare verso sud. Vivevo per strada, tra bande di giovani teppisti e altri orfani senza casa”. Dopo quattro anni di vagabondaggio fu ricoverato per febbre e malnutrizione in un ospedale cattolico di Reggio Emilia, dove però non riusciva mai a guarire. “Come gli altri bambini, ricevevo un solo pasto al giorno: una tazza di caffè e una crosta di pane”. Voleva disperatamente scappare ma non poteva. “Dormivamo nudi e senza lenzuola sopra il materasso. La suora prometteva di lasciarmi andare se mi si fosse abbassata la febbre. Sapeva che, debilitato e senza vestiti, non sarei fuggito da nessuna parte”. Ed è in questa condizione che sua madre – liberata nel frattempo dagli americani – lo trovò, il giorno del suo nono compleanno, dopo un anno di ricerche. “Mi comprò un vestito da tirolese, con tanto di cappellino con le piume che conservo ancora oggi nel cassetto”. Dopo qualche settimana i due salparono per l’America dove vennero accolti in una comunità quacchera vicino a Philadelphia da un fratello della donna, Edward Ramberg, fisico i cui studi contribuirono allo sviluppo del microscopio e della tv a colori».
• Secondo un’approfondita inchiesta dell’Associated Press la deportazione a Dachau della madre non sarebbe provata da alcun documento: secondo una scheda dell’International tracing service for war victims, un’organizzazione che in Germania raccoglie i dati sui deportati, fu imprigionata a Perugia, e in un secondo momento deportata in Germania, ma non a Dachau. Documenti rintracciati dagli autori dell’inchiesta nell’Italia settentrionale rivelano poi che Capecchi durante la guerra non visse per strada, ma fu accudito dal padre. Lo stesso Capecchi ha mostrato vivo interesse per le nuove informazioni emerse dall’inchiesta, mostrandosi disponibile verso i giornalisti dell’Ap.
• Ha condiviso il Nobel con l’inglese Martin Evans e l’americano Oliver Smithies: «L’Accademia svedese delle scienze ha voluto premiare due settori di punta della ricerca degli ultimi anni: l’ingegneria genetica e lo studio delle cellule staminali embrionali. Una ricerca cominciata con un’intuizione di Capecchi che attualmente lavora all’Università dello Utah a Salt Lake City: inserire frammenti di Dna in cellule di mammifero per “tagliare” un gene, impedendone il funzionamento» (Adriana Bazzi).