Rassegna, 9 maggio 2012
Agguato ad Adinolfi, si indaga per terrorismo
• A distanza di 48 ore non è arrivata nessuna rivendicazione per l’attentato all’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Ieri la procura di Genova ha aggiunto al fascicolo per lesioni l’aggravante di «finalità terroristiche». Si indaga ufficialmente sull’arcipelago brigatista, perché la tecnica e l’obbiettivo dell’agguato sono quelli. Gli inquirenti si stanno muovendo su due piste: l’eversione di matrice marxista-leninista e gli anarco-insurrezionalisti, un campo ancor più scivoloso nelle sue derive ambientaliste. Scrive Calandri (Rep): «Ma adesso guardano con più attenzione anche ad un altro scenario, i cui protagonisti non avrebbero nessuna intenzione di farsi pubblicità. Quello delle commesse estere di Ansaldo Nucleare, di cui Adinolfi è amministratore delegato: un business di straordinarie proporzioni, su cui nell’Europa dell’Est vorrebbe mettere le mani la malavita organizzata locale. Facendosi annunciare da una revolverata sotto il ginocchio del numero uno dell’azienda italiana. L’attentato era stato preparato da mesi, confermano gli investigatori. Parlano di almeno un “basista” genovese che avrebbe pedinato a lungo la vittima, studiandone a memoria i movimenti, suggerendo di colpire nel luogo e nel momento migliori, indicando un percorso di fuga in mezzo alla città altrimenti troppo complicato. Provano a dare un volto ai due aggressori del manager. “È possibile che qualcuno li abbia visti senza casco”, ipotizza il procuratore capo, Michele Di Lecce. Esiste un super-testimone? “Può darsi”, taglia corto».
• L’uomo che ha sparato ad Adinolfi sarebbe alto un metro e ottanta, ha i capelli lunghi e gli occhi scuri. [Calandri, Rep]
• Sull’attentato ad Adinolfi scrive Bonini su Rep: «Roberto Adinolfi viene colpito da un solo proiettile calibro 7.62 esploso da una vecchia Tokarev di fabbricazione sovietica. A differenza delle ultime azioni a fuoco rivendicate dalle Br, chi lo esplode non è preoccupato di lasciare sull’asfalto il bossolo che renda l’arma individuabile (forse lo fa intenzionalmente). Lasciando, tanto per dirne una, che chi indaga trovi in quell’arma analogie in un sequestro di un’identica pistola nelle campagne leccesi durante un’operazione contro la criminalità organizzata. Non solo. Soprattutto, a differenza del macabro rituale di ogni gambizzazione o esecuzione di innocenti per mano eversiva, chi spara ad Adinolfi non proferisce verbo. Non lo chiama a voce alta. Non lo invita a girarsi per contemplare la propria “condanna”».