Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 17 Mercoledì calendario

“Piste, confidenze, smentite. Un processo a handicap”

Corriere della Sera, mercoledì 17 novembre

La tentazione è comprensibile: una sentenza «sconcertante», «deludente», che «perpetua il Paese delle stragi impunite». Ma non è che un processo serva soltanto se condanna gli imputati. Un processo ha senso anche quando assolve. A volte, ha senso persino per il solo fatto di essere stato istruito e celebrato.
E sebbene i dibattimenti non possano mai essere lo strumento per scrivere o riscrivere la Storia, tantomeno con condanne a tutti i costi, anche quelli conclusi da un’assoluzione controversa possono consegnare ai cittadini verità storicamente non meno significative di quanto giuridicamente inservibili. È il caso del processo che ieri a Brescia, dopo una settimana di camera di consiglio all’esito di 166 udienze in 2 anni, non ha accolto 4 richieste di ergastolo e ha invece assolto, con il richiamo alla «prova mancante o contraddittoria», tutti gli ultimi imputati di concorso nella strage che in piazza della Loggia il 28 maggio 1974 uccise 8 persone e ne ferì 102.

Un’inchiesta a handicap per 36 anni, sin dall’immediato lavaggio della piazza che, commissionato dalla polizia ai pompieri, improvvidamente cancellò preziose indicazioni sull’esplosivo. Una continua corsa a ostacoli, già dalle infelici (e forse orientate) scelte investigative iniziali. Un processo in perenne rimonta, a maggior ragione dopo il disvelamento solo nel 1993, e solo a opera della magistratura, della «fonte Tritone» dei servizi segreti: il neofascista veneto Maurizio Tramonte, che in una relazione del 6 luglio 1974 aveva raccontato al Sid le riunioni di Ordine nuovo ad Abano Terme preparatorie della strage. Ma anche un dibattimento minato dalla ritrattazione in aula di Tramonte; incrinato dalla non linearità del comportamento e delle versioni dei collaboratori Martino Siciliano e Carlo Digilio (ordinovista e pure contatto Cia in Italia, morto dopo un ictus); appesantito dalle contestazioni di favoreggiamento all’avvocato Gaetano Pecorella, dopo sette anni prosciolto nel 2009 dall’accusa di aver favorito il tentativo del suo cliente Zorzi di comprare la ritrattazione di Siciliano; e tarpato dall’assenza del sospetto autore materiale, un ordinovista di Rovigo morto di overdose nel 1991.

Con queste premesse è meno incomprensibile che ieri, accanto alla riferibilità di quelle stragi al neofascismo veneto già accertata dalle pur assolutorie sentenze per le stragi milanesi in piazza Fontana (17 morti nel 1969) e davanti alla Questura (4 morti il 17 maggio 1973), nel caso di piazza della Loggia sia stata perduta l’ultima chance di abbinare una responsabilità penale (cioè personale) a cognomi precisi.

In principio, dopo un iniziale focus sui sanbabilini milanesi, fu la pista dei «neri» bresciani a portare nel 1979 all’ergastolo per Ermanno Buzzi e ai 10 anni per un giovane (Angiolino Papa) plagiato dal finto aristocratico «nero». Ma la sentenza fu annullata in appello nel 1982, con Buzzi già strangolato in carcere dai «camerati» Concutelli e Tuti: nel 1983 la Cassazione annullò l’assoluzione e ordinò un nuovo appello per i coimputati, però riassolti nel 1985.
Nel frattempo nel 1984, a partire da confidenze di detenuti «neri» sviluppate dal giudice istruttore, riprende vigore l’iniziale pista milanese, che nel 1987 manda a processo Cesare Ferri e l’amico Alessandro Stepanoff che nel 1975 gli aveva fornito l’alibi (a Milano in università) da opporre al ricordo di don Marco Gasparotti che affermava invece d’averlo visto a Brescia la mattina della strage: la Corte li assolve con formula dubitativa, che diventa piena nel 1989 in appello e in Cassazione, al punto tale che gli imputati ricevono 100 e 30 milioni come riparazione.

Nel 1993 la scoperta dell’identità della «fonte Tritone» apre il terzo filone, quello veneto, per il quale nel 2001 i pm chiedono l’arresto di Maggi, Tramonte e Zorzi, e nel 2007 sulla base di Digilio incriminano per concorso nella strage pure il neofascista Gianni Maifredi (morto nel 2009), il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nell’ipotesi che da comandante del Nucleo bresciano avesse saputo della preparazione della strage senza impedirla, e l’ex segretario del Msi e fondatore di Ordine nuovo Pino Rauti, presente come Delfino (a detta di Tramonte) a riunioni operative nella primavera 1974.

Adesso, dopo ieri, si può fare il tiro alla fune con i numeri dei processi. Contare quelli finiti senza colpevoli o con colpevoli fuori tempo massimo (come Freda e Ventura per piazza Fontana): e cioè 8 gradi di giudizio per piazza della Loggia, 11 per piazza Fontana, 5 per la Questura. Oppure, dal punto di vista opposto, contare i processi che fanno di Maggi un primatista dell’ergastolo sfiorato, alla fine sempre assolto dalle tre stragi pur dopo una richiesta (Brescia) e due condanne intermedie al carcere a vita (piazza Fontana e Questura). La differenza d’aritmetica che passa tra un libro di storia e un verdetto di responsabilità personale.

Luigi Ferrarella