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 2009  aprile 07 Martedì calendario

La terra impazzita e i giuramenti mai mantenuti

Corriere della Sera, martedì 7 aprile 2009

«Bare. Mandate altre bare». «Ancora?». «Ancora». Alle quattro del pomeriggio, tra i ciliegi e i meli in fiore di Onna, l’antica Villa Unda nota al papa Clemente III, è già chiaro che non bastano, tutte quelle casse di legno chiaro fatte arrivare a più riprese fin dalla mattina e allineate da una parte, sotto il tronco di una robinia. Un poliziotto stende sull’ultimo poveretto estratto dalle macerie, infagottato tra coperte e lenzuola, un pezzo di nastro adesivo da pittori. Ci scrive un nome col pennarello. Non c’è un passero che voli, nel cielo azzurro di Onna. Non una rondine che sfrecci. Non una cinciallegra che canti. Solo il silenzio. Un silenzio gonfio di disperazione. Rotto solo dal pianto di qualche parente e dal rumore dei caterpillar che affondano le pale tra le rovine tirando su enormi cucchiaiate di quotidianità annientata. Frigoriferi sepolti sotto tonnellate di pietra con una confezione di uova rimaste miracolosamente intatte che si rompono rotolando via nella polvere. Stufe a gas. Credenze dai vetri scoppiati coi bicchierini del vermouth della domenica rovesciati tutti da una parte. Spalliere di ottone che emergono tra i travi e i mattoni luccicando gialle sotto il sole.

Silvio Berlusconi, che si è precipitato nel cuore di questo Abruzzo ferito annullando il viaggio in Russia dove era in programma una missione a fianco degli imprenditori, ha un maglioncino nero, la faccia nera e assicura che «nessuno verrà lasciato solo» ma la situazione è davvero pesantissima: «Per quanto riguarda il centro storico di L’Aquila c’è inagibilità assoluta: tutti gli edifici pubblici sono inagibili». Invita «gli abitanti a non restare nelle case lesionate: se si ha la possibilità di portare famiglia e bambini da amici e parenti, è meglio dislocarsi altrove». Ammette che no, «non c’è nessuna possibilità di effettuare previsioni: non c’è nessuno che può dire che non ci saranno scosse nelle prossime ore o nei prossimi giorni». Gli aquilani del centro storico e delle frazioni vicine si accoccolano spossati sui sedili delle auto parcheggiate il più lontano possibile dalle case e sospirano come don Mauro, il parroco della contrada di Sant’Elia dove il campanile si è piegato tutto da una parte e minaccia di cadere sulla canonica e la chiesa dedicata a San Lorenzo pare colpita da una granata che abbia buttato giù l’intera facciata a destra del portone e sventrato l’interno risparmiando solo la statua del santo, bianca come un fornaio. «Si dovrà capire, poi, questa storia dell’esperto. Si dovrà capire perché non gli hanno dato retta».

Ecco il dubbio che ronza nella testa di tutti: perché non è stato ascoltato Giampaolo Giuliani, il ricercatore che nei giorni scorsi aveva lanciato l’allarme avvertendo che sarebbe arrivato uno scossone devastante? «L’avevano perfino denunciato», borbotta don Mauro, sistemandosi il colletto bianco rigido slacciato, «Perfino denunciato. E invece aveva ragione lui». Un vigile del fuoco sfatto di fatica tiene al guinzaglio un cane che tira di qua e di là annusando la morte. L’uomo si toglie la mascherina, risponde al cellulare, cerca di mettere insieme l’ennesimo bilancio. Cento morti, forse. Forse di più. Forse centocinquanta. Più di centocinquanta.

A L’Aquila, dove si è accasciata la Prefettura e si è piegata tutta da una parte la Casa dello studente e si è schiantato su se stesso un condominio che svettava su un sereno giardino di pini il cui profumo si fa largo con un soffio, appena c’è un refolo di vento, tra la polvere sollevata dalle ruspe. A Paganica, la patria di Sallustio ai piedi del massiccio del Gran Sasso dove passava la via romana Claudia e dove è crollato il monastero di San Chiara ed è stata devastata la Chiesa grande.

A San Pio delle Camere, che sta adagiato ai piedi del monte Gentile e prima di finire sui giornali il giorno in cui il suo paesano Franco Marini diventò presidente del Senato, era famoso per lo zafferano, che è così delicato ed esposto ai capricci del tempo che «un anno t’arricca e uno ti spianta». La vecchia signora Rita viveva in via Massale, ai bordi di Onna. Una casetta come tante, a due piani. Prima di andare a letto, aveva accomodato ordinatamente la camicetta e la gonna su una sedia posata contro il muro della camera. La casa è venuta giù ma la sedia è rimasta lì. Al suo posto. Salda su un orlo del pavimento rimasto miracolosamente aggrappato alla parete azzurra. Dove spiccano un crocefisso e il quadretto di una madonnina. La ruspa scava sotto gli occhi dei figli, che assistono inebetiti. A un certo punto un pompiere fa un gesto. La ruspa si ferma. Un vigile si china e tira su una coperta. Poi una trapuntina. Poi un lenzuolo. Ci siamo, forse. «Indietro! Per favore, indietro», chiede un poliziotto. «È lei?» «È lei». Il parco giochi della scuola materna, coi suoi castelletti e gli scivoli e i tavolini e i recinti gialli e rossi e verdi e blu è rimasta l’unica cosa colorata della contrada. Tutto il resto, nella devastazione che ha annientato in pochi istanti due terzi del paese sfregiando l’ultimo terzo con crepe e finestre accecate e cornicioni precipitati al suolo, ha assunto un uniforme colore grigiastro.

  Il vecchio Giuseppe, il viso segnato dal sangue di una ferita alla fronte che non è ancora riuscito a lavare via, mostra la distruzione della cascina e del cortile e delle tettoie dove teneva le macchine agricole: «Io e mia moglie ci siamo salvati per un pelo. Fortuna. Vuol sapere la cosa più assurda? Si è sentito uno schianto e ci tremava la terra sotto i piedi e venivano giù le pareti e io mi sono trovato a imprecare: “Le scarpe! Dove ho messo le scarpe?”». Suor Lucia, che con le consorelle si è sistemata su alcune seggiole davanti a ciò che resta del «Pontificio Istituto Maestre Pie Filippini», si lagna per la gamba. Si è buttata sulle ginocchia una coperta ma dice che non è servita a molto. Dolori. Dolori forti. «Siamo qui da stanotte. Ormai sta scendendo la sera e non abbiamo idea di cosa fare». Dalla vicina Casa dello studente, quando già comincia a calare la luce, salgono urla di gioia. Hanno trovato i ragazzi che erano sotto. Vivi. Si rivelerà un’illusione, ma per un po’ sembra un miracolo. Suor Lucia pensa che è merito anche delle preghiere di santa Lucia Filippini, che è riuscita a rimanere dritta sulla sua colonnina mentre tutto intorno crollava e si è guadagnata un posto accanto al buon Dio grazie al fatto che, come dicevano i santini di un tempo, «scansava le amicizie delle compagne cattive che avvelenano coi loro vizi le anime innocenti e si guardava dalla vanità».

Quel che è sicuro, a girare per le strade del capoluogo e dei borghi dei dintorni e a vedere come sono andati giù anche certi edifici costruiti dieci o venti anni fa, è che un Paese come il nostro non può affidarsi a santa Lucia o a sant’Emidio, protettore dai terremoti. Sull’elenco telefonico di Los Angeles appena aperto, come ricordò un giorno Giorgio Dell’Arti, c’è una frase: «Ci saranno sempre terremoti in California». A seguire, tutte le istruzioni su come comportarsi: tenere a portata di mano torce e radio con batterie, una valigetta con il materiale minimo di pronto soccorso, dieci litri d’acqua... Certo, tutto ciò non basta quando la terra, per usare la frase sentita ieri ad Onna in bocca a una ragazzina che trema come una foglia al ricordo, «comincia a sbattere come la coda di un drago impazzito». Ma i morti sì, possono essere limitati. I danni sì, possono essere contenuti, quando le case sono costruite con i progetti giusti e gli accorgimenti giusti e i materiali giusti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi italiani. Che viviamo in una terra tra le più inquiete di un mondo in cui avvengono ogni anno un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio del quinto grado della scala Richter, cioè uno ogni tre-quattro giorni e ogni tanto ne arriva uno che sconquassa tutto. E per giorni giurano tutti che basta, occorre cambiare le regole e bisogna adottare una volta per tutte i sistemi che aiutano a limitare i danni perché è stupido spendere i soldi come per decenni ha fatto lo Stato che secondo i dati del Servizio geologico nazionale è riuscito a spendere solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie oltre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 milioni di euro al mese. Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orientale nel dicembre 1990 e per quello nell’Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell’ottobre 2002... Tutti lutti seguiti da una promessa solenne: mai più. E presto dimenticata sotto la spinta di nuovi condoni, nuove elasticità urbanistiche, nuove regole più generose...

Mentre cala la notte, nei paesi sotto il Gran Sasso la terra, ogni tanto, dà un nuovo scossone. Piccolo. Leggero. Sinistro. Così, tanto per ricordare chi comanda.

Stella Gian Antonio