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 2007  marzo 19 Lunedì calendario

“Il nome della legge”

L’articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera nel quinto anniversario della morte di Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Brigate rosse.

Corriere della Sera, 19 marzo 2007

La sera del 19 marzo di cinque anni fa Marco Biagi è stato ucciso in un agguato squadristico sulla porta di casa. Dopo cinque anni, la ricorrenza produce ancora polemiche e contrapposizioni. Questo vero e proprio imbarazzo della società civile democratica, perdurante a tanta distanza di tempo nonostante l’universale esecrazione dell’assassinio, conferisce a quell’evento una valenza politica peculiare e può considerarsi come un piccolo ma durevole successo della strategia dei terroristi. Se vogliamo battere quella strategia, non possiamo dunque eludere questo problema.

C’è un primo dato, marginale solo in apparenza, dal quale la riflessione può prendere le mosse: ancora oggi nello schieramento di centrosinistra prevale nettamente il rifiuto di chiamare la legge scritta da Marco Biagi con il suo nome. Non solo la sinistra radicale, ma anche i Ds – con la sola eccezione, va detto, di Walter Veltroni – continuano a chiamarla «legge 30», con questa motivazione: «Biagi era una persona troppo intelligente e per bene per poter scrivere una legge contro i lavoratori come questa». E il rifiuto perdura anche dopo che si è constatato, dati alla mano, che questa legge non ha cambiato sostanzialmente nulla della protezione del lavoro stabile e, quanto al lavoro precario, negli ultimi cinque anni la sua quota complessiva non è affatto aumentata. accaduto invece che il ministro del Lavoro del governo Prodi, per dare un giro di vite contro il precariato nei call center, abbia emanato una circolare che fa leva proprio sulle norme contenute in questa legge; ma questo non impedisce che lo stesso ministro, nella prefazione a un libro uscito pochi mesi or sono, indulgendo a un deplorevole vezzo lessicale della vecchia sinistra, si senta in dovere di indicarla come una «controriforma» del lavoro.

Come dire: «Vere riforme sono solo quelle che facciamo noi»; per esempio il «pacchetto Treu» del 1997. Ma il tempo è galantuomo; e i fatti mostrano che la legge Biagi non è altro se non uno sviluppo della riforma Treu del 1997, che anzi la flessibilizzazione più rilevante del mercato del lavoro è stata proprio quella recata dalle leggi del 1997. Il fatto è che ammetterlo sarebbe politicamente rovinoso per l’assetto attuale della sinistra: significherebbe trovarsi nella scomodissima alternativa tra riconoscere di avere gravemente sbagliato nel demonizzare per cinque anni la riforma Biagi e il suo autore, oppure rinnegare la riforma Treu. Ora, rinnegare la riforma Treu non è possibile, poiché essa fu varata dall’intero schieramento di sinistra, sulla base di un accordo pieno con l’intero movimento sindacale, Cgil compresa. Accade così che, inchiodata all’errore di faziosità commesso per tutta la scorsa legislatura, l’attuale maggioranza non possa permettersi una verifica aperta e trasparente su questo punto: per non spaccarsi, per sopravvivere, è condannata a negare l’evidenza.

Fin qui, sarebbe solo una questione di tattica politica; ma la questione è più profonda. Anche oggi che le accuse mosse alla legge Biagi – quelle di spalancare le porte al precariato, o di «smantellare il diritto del lavoro» – si sono sciolte come neve al sole (al punto che nel documento presentato da Cgil, Cisl e Uil al governo nei giorni scorsi per l’avvio della concertazione sulle politiche del lavoro non si fa alcun cenno neppure a una modifica di quella legge), perdura pur sempre a sinistra una paura di fondo verso la parte essenziale del contributo politico- culturale del giuslavorista bolognese: una coazione a prenderne le distanze come se si trattasse di cosa infetta.

Pietro Ichino