30 dicembre 1980
«Noi, brigatisti, raccontiamo che...»
• Nell’ultimo numero dell’anno, da oggi nelle edicole (anche se la data in copertina come di consueto è quella della settimana prossima), il settimanale L’espresso pubblica una clamorosa intervista alle Brigate rosse. La firma Mario Scialoja, autore di un analogo colpo giornalistico per la stessa testata il 16 maggio 1974. A fungere da tramite tra il giornalista e i terroristi, che in questi giorni tengono in ostaggio il magistrato Giovanni D’Urso, è stato Giovanni Senzani, al quale Scialoja (che l’1 gennaio 1981 sarà arrestato per favoreggiamento) ha consegnato dieci giorni fa le domande dell’intervista. Ecco il testo.
L’espresso, 5 gennaio 1981
Per la prima volta le Br parlano, con simile ampiezza, dei loro propositi. S’intrattengono sul tema dei “pentiti” e sul caso di Aldo Moro. Fanno intravedere cosa vogliono in cambio della liberazione di D’Urso. Parlano della “crisi interna” alle stesse Br, rifiutano qualsiasi proposta di amnistia. È un’agghiacciante requisitoria.
Dopo Moro, D’Urso: non è un passo indietro rispetto al “livello strategico”? Come lo spiegate?
E perché mai? L’azione Moro era all’interno di una campagna d’attacco allo stato imperialista che cadeva in una fase di scontro diversa da quella attuale. L’azione Moro segnava allora il punto più alto di uno stadio della guerriglia: quello della propaganda armata. Si trattava ancora di radicare nella coscienza proletaria la necessità e la validità strategica della lotta armata. La cattura di D’Urso invece si colloca in una fase di scontro più avanzata in cui la parola d’ordine generale della guerriglia è: conquistare e organizzare le masse sul terreno della lotta armata per il comunismo.
Perché dite che la fase di scontro è più avanzata?
La profondità della crisi imperialista ha messo in evidenza la totale estraneità dell’interesse proletario dalle esigenze capitalistiche. La ristrutturazione ad ogni livello che sta avvenendo in Italia, spinge interi strati di classe sul terreno della lotta rivoluzionaria. Questo stato è in grado di garantire solo disoccupazione, supersfruttamento, miseria e galera. I bisogni non solo strategici ma anche quelli immediati e materiali delle masse operaie e proletarie in questo regime vengono inesorabilmente e violentemente schiacciati e annullati da un sistema di potere che non ha più nulla da offrire, impegnato solo a conservare se stesso. La lotta che le masse operaie e proletarie sviluppano per il soddisfacimento dei bisogni immediati, diventa di ratto scontro di potere. E questo cambia tutto.
Ma le vicende Fiat non starebbero a dimostrare il contrario?
La lotta Fiat ha espresso a livello spontaneo e di massa contenuti autonomi e di potere che non segnano affatto la fine di un ciclo e delle sue illusioni; ma, all’opposto, l’inizio di un nuovo ciclo di lotte, covato in tutti questi ultimi dieci anni, per quanto lungo possa essere, per quanto difficili possano apparire all’inizio le sue condizioni di sviluppo. Per la prima volta nella storia recente della lotta di classe in Italia, l’antagonismo proletario non si è espresso in un rivendicazionismo che giocava al rialzo rispetto alle piattaforme sindacali, ma in obiettivi di potere contro un progetto di annientamento politico, in una difesa del posto di lavoro che esaltava l’unità di classe, in un’autonomia di classe che si è tradotta in scontro di massa contro sindacati e revisionisti, anche dove costoro hanno tentato di cavalcare la tigre per ucciderla meglio. Solo la grande arretratezza che ancora dobbiamo registrare nelle forze rivoluzionarie non ha permesso che già da subito si sedimentassero gli strumenti organizzativi che potevano guidare lo scontro di potere che oppone la classe operaia Fiat al padronato.
In poche parole, voi dite che le masse sono pronte a fare la rivoluzione?
Non siamo così ingenui. Diciamo che esistono oggi le condizioni oggettive e soggettive perché si determini un passaggio decisivo verso la guerra civile per il comunismo. Esistono cioè le condizioni perché dal movimento di massa, che lotta contro la ristrutturazione, nascano e si consolidino organismi di massa rivoluzionari che insieme al Partito Comunista Combattente costituiscono una determinazione fondamentale del potere proletario armato. E’ questo essenzialmente che costituisce il cambiamento di fase di cui parlavamo. La nostra linea politica deve quindi svilupparsi in questa direzione e farsi carico di tutti i problemi che la costruzione del potere proletario armato pone sul tappeto.
Questo significa forse che intendete in qualche modo strumentalizzare le tensioni sociali e cavalcare la tigre dei movimenti spontanei?
L’esatto contrario. Non si tratta di rincorrere ogni esplosione di rabbia proletaria, ma di comprendere che queste sono il prodotto di profonde cause oggettive, che trovano la loro origine nel fatto che il sistema capitalistico è storicamente superato. Si tratta quindi di cominciare a costruire la sua alternativa. A partire dalle tensioni fortemente presenti nei vari strati proletari, dai contenuti delle sue lotte, occorre favorire la definizione dei “programmi immediati” su cui estendere la mobilitazione, contribuire all’affermazione ed al consolidamento degli organismi rivoluzionari che ne sono i promotori.
Ma queste non assomigliano alle tesi dell’autonomia che avete finora condannato?
Neanche un po’. Infatti il ruolo del Partito comunista combattente non scompare per dissolversi nella spontaneità; anzi acquista ancora più valore perché rispetto ai programmi immediati e agli organismi di massa rivoluzionari, il Partito deve ancor più rappresentare il punto di riferimento generale. Deve essere portatore del programma generale di transizione al comunismo, saperlo dialettizzare con i momenti particolari espressi dalla lotta dei vari strati operai e proletari. L’iniziativa di partito in questo senso è essenziale per riunificare politicamente il proletariato. Come si vede non c’è un cambiamento della nostra linea strategica, ma un suo adeguamento alle nuove formidabili condizioni che schiudono grandi possibilità di costruzione del potere proletario armato.
Che c’entra tutto questo con il sequestro D’Urso?
Che cosa c’entra lo saprebbero spiegare benissimo i proletari prigionieri. C’è una realtà che la propaganda di regime mistifica o nasconde. La crisi ha dilatato la fascia proletaria espulsa dal processo produttivo, relegata ad una condizione di stabile emarginazione, priva di reddito che ha nella extralegalità l’unica possibilità di sopravvivenza. La scomposizione di classe operata dalla borghesia sulla pelle di centinaia di migliaia di proletari ha il suo punto di forza militare nel carcere imperialista. Non solo ma l’attacco micidiale scatenato da Agnelli ed i suoi accoliti alla classe operaia occupata dovrebbe passare con l’incarcerazione e la distruzione delle avanguardie operaie e proletarie. Le cifre parlano chiar più di 35.000 sono i proletari incarcerati e più di 3.000 i compagni nei campi di concentramento.
Volete dire che non esiste la figura del criminale comune e del prigioniero politico?
Di criminali in questa società conosciamo solo la banda democristiana e le belve di regime. I proletari incarcerati fanno parte a pieno titolo del proletariato metropolitano, e nella loro stragrande maggioranza hanno identificato nella lotta per il comunismo il loro interesse di classe. Ciò è dimostrato dal fatto che la criminale politica carceraria non ha avuto successo grazie proprio alla loro iniziativa di lotta; alla grande mobilitazione che hanno saputo realizzare sul programma lanciato dai comitati di lotta dentro le carceri. Il carcere imperialista è sì un punto di forza militare per la borghesia, ma si anche rivelato un momento di ricomposizione politica del proletariato e questo ha un enorme valore nel complesso dei rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione.
Ancora non avete spiegato cosa c’entra D’Urso.
Se in questo momento il carcere è lo strumento fondamentale della controrivoluzione preventiva, attaccare i vertici del ministero di Grazia e Giustizia che lo fanno funzionare è attaccare il “cuore dello stato”. Aver ‘catturato D’Urso è già un grosso successo politico che disarticola il progetto nemico. ‘Ma di per sé sarebbe insufficiente se questa azione di guerriglia non fosse stata in stretta dialettica con il movimento dei proletari prigionieri e in sintonia con gli obiettivi del programma immediato dei comitati di lotta.
Con il sequestro D’Urso che obiettivi vi siete proposti?
Essenzialmente due obiettivi. Innanzitutto sferrare un colpo alla strategia dell’annientamento proletario di cui lo stato imperialista è portatore e di inchiodare alle sue responsabilità un maiale che dal Ministero di Grazia e Giustizia impartiva gli ordini agli aguzzini carcerieri. In secondo luogo — ma ugualmente importante — è un’iniziativa di partito che vuole aprire nuovi spazi politici al movimento dei proletari prigionieri e ai suoi organismi; dargli quella voce che si è conquistata con mille iniziative, contribuire concretamente al perseguimento degli obiettivi della sua lotta.
Come era stato per Moro, avevate studiato la possibilità alternativa al sequestro di altri personaggi al posto di D’Urso?
Di alternative ce ne sono sempre parecchie. Tante quante sono gli uomini e le strutture di questo regime. Prima o poi il potere proletario armato si occuperà di tutti. Per la guerriglia si tratta di individuare in una precisa congiuntura politica dove sta ‘il cuore del progetto controrivoluzionario’ e lì sferrare i suoi colpi. Così è stato fatto per Moro e così per D’Urso.
In cambio della vita di D’Urso cosa chiedete esattamente?
Noi non chiediamo nulla. Non abbiamo niente da chiedere a questo regime. I nostri obiettivi strategici sono chiari da anni: ‘distruzione’ di tutte le carceri e libertà per tutti i proletari ‘prigionieri‘. Quanto si riesce a conquistare tatticamente all’interno di questi obiettivi è determinato solo dai rapporti di forza complessivi che il movimento rivoluzionario è in grado di stabilire. Mentre noi questi rapporti sappiamo valutarli correttamente, non ci sembra che questo regime sappia fare altrettanto. Ma forse questo è un segno della crisi in cui la borghesia si dibatte e si ostina a non voler capire che la guerra è fatta di battaglie vinte e battaglie perse, e che questa l’ha persa.
Come si sta comportando D’Urso?
Ottimamente. Collabora con la giustizia proletaria. Oltre a confermare i termini con cui hanno progettato l’annientamento carcerario, ci ha indicato tutti i suoi collaboratori vicini e lontani.
Quanto durerà il sequestro D’Urso?
Noi siamo contrari a ogni prigione anche a quelle in cui siamo costretti a rinchiudere i nemici del popolo. Quindi D’Urso ci resterà solo il tempo necessario per processarlo, per mettere in chiaro le sue responsabilità, perché possa essere emesso un giudizio secondo la giustizia proletaria.
Il fatto di aver rapito una persona senza scorta significa che avete voluto evitare i morti o che non eravate in grado di rischiare uno scontro “militare”?
Né l’uno né l’altro. I criteri, come abbiamo già spiegato, con cui la guerriglia attacca sono politici. Il livello militare della forza da mettere in campo viene di conseguenza, e crediamo che sia ampiamente dimostrato che non esiste obiettivo, per quanto protetto, scortato e difeso, che non sia raggiungibile.
Secondo voi perché nel giro di pochi mesi, dopo anni di “tenuta”, militanti come Fioroni, Peci, Viscardi, e, a quanto pare anche vari brigatisti di Genova, si sono messi a parlare?
Qui bisogna fare una distinzione perché la controguerriglia psicologica su questa questione ha pescato a piene mani. Ha creato innanzitutto un personaggio inesistente: “il terrorista pentito”. Di pentimenti non se ne sono visti né pochi né tanti. È accaduto invece che alcuni individui che hanno vissuto per anni parassitariamente sul movimento rivoluzionario, hanno creduto di fare il loro interesse arruolandosi nei Carabinieri. In questo nuovo ruolo è chiaro che hanno cercato di acquisire dei meriti tra gli sbirri, col risultato di far ammazzare numerosi compagni e di farne arrestare molti altri. Questi vermi non hanno fatto altro che “confessare” ciò che serviva a questo regime per mandare in galera centinaia di compagni. Costoro sono delle tragiche marionette a cui anche la giustizia proletaria faticherà a dare un minimo di dignità umana. Sono pochi ma abbastanza perché il prezzo pagato dal movimento rivoluzionario per non averli saputi riconoscere per tempo, è molto alto. Una critica in questo senso è già stata fatta e per quanto ci concerne abbiamo già saputo correggere ed adeguare al nuovo livello di scontro le discriminanti politiche che selezionano i nostri militanti. Diverso invece è il caso di altri compagni che sotto l’interrogatorio, sotto tortura hanno ammesso la loro partecipazione ad azioni di guerriglia. E’ stato questo un comportamento molto sbagliato, determinato da poca chiarezza che ha finito per coinvolgere altri compagni. Neanche qui si tratta di pentimento ma di incapacità di alcuni dl comprendere le nuove condizioni dello scontro di classe, i livelli di repressione dello stato imperialista. Anche se ciascuno ha le sue responsabilità, il problema è essenzialmente di fare chiarezza. L’una cosa e l’altra spettano al movimento rivoluzionario che ha sempre saputo distinguere tra le debolezze che fanno parte della sua crescita e i suoi nemici.
Ma non si tratta più di alcune crisi individuali: come fate ad escludere che si tratti del fallimento di una linea politica?
Quelle che sono entrate in crisi sono state le linee spontaneiste e militariste e con esse quelle frange che facevano riferimento alla lotta armata, che non hanno saputo comprendere le mutate condizioni dello scontro. Infatti chi aveva considerato la lotta armata come una forma di lotta più radicale di altre, anziché una strategia di lungo periodo, di fronte alla virulenza della controffensiva del regime si è trovato politicamente disarmato ed ha finito così per confondere la propria sconfitta con quella del movimento rivoluzionario. E questo proprio quando la lotta armata ha esteso la sua influenza su ampi strati di proletariato e si apre storicamente la possibilità di un nuovo grande salto in avanti dell’organizzazione del potere proletario. È necessario però che la guerriglia si misuri con i problemi che comporta l’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata. Il Partito Comunista Combattente dimostrerà di essere tale principalmente nella capacità che avrà di assolvere a questo compito. Oggi solo chi non sa vedere questa necessità è in crisi profonda.
Negate che vi sia una crisi delle Brigate Rosse?
Le Br già nella Direzione strategica del ‘78 avevano colto le novità che contraddistinguono la fase attuale. Nonostante ciò abbiamo avuto un certo ritardo nello spingere a fondo la critica e nell’assumere pienamente i compiti che il movimento di classe ci poneva. Ad esempio, con un certo ritardo, dopo la campagna di primavera, abbiamo capito che superare la fase della propaganda armata pura e semplice, voleva dire assumere il difficile compito di agire nei diversi strati di classe per dare concretezza di programma alle spinte rivoluzionarie in esse presenti e su questo programma determinare il salto di qualità dell’organizzazione delle masse. Un grande dibattito che si è svolto negli ultimi mesi, dentro e fuori l’Organizzazione, ha portato oggi ad una grande chiarezza ed ha consentito di fissare nella Direzione Strategica dell’ottobre ‘80 le linee fondamentali della evoluzione politica che era necessaria.
Come mai è stato reso pubblico il contrasto tra la vostra Direzione strategica e la colonna Walter Alasia? Il contrasto dura ancora? La Walter Alasia ha partecipato al sequestro D’Urso?
Il dibattito politico delle Br non è mai stato segreto; è stato pubblico e ha coinvolto, oltre che, ovviamente, le strutture della nostra organizzazione, l’intero movimento rivoluzionario. Il peggior nemico con cui abbiamo dovuto fare i conti in questo periodo è stato una tendenza opportunista che ha percorso tutto il movimento della lotta armata e che aveva trovato qualche seguace anche nella nostra Organizzazione. Sconfiggere questo nemico era indispensabile per raggiungere una nuova e forte unità. Averlo fatto con chiarezza è stato necessario per dare un nuovo impulso all’intero movimento, Nella colonna Walter Alasia – che per storia e tradizione di lotta è tra le più valorose della nostra organizzazione – qualche compagno ha voluto insistere su pratiche militariste e su una concezione sbagliata della lotta armata. E quindi se n’è andato per la sua strada. Questi compagni non hanno più niente a che fare con la nostra Organizzazione né con la colonna Walter Alasia, anche se la loro confusione li porta sovente ad atteggiamenti scioccamente provocatori. La colonna Walter Alasia saprà fare chiarezza anche su questo, senza tolleranze nei confronti delle linee sbagliate e con la massima apertura verso i sinceri rivoluzionari.
In alcuni vostri documenti avete denunciato il fatto che dei “militanti rivoluzionari” catturati sono stati sottoposti a tortura: avete delle prove precise e degli episodi da raccontare?
Non si tratta più di episodi, ma di metodo diffuso adottato dagli sbirri di questo regime. Praticamente ogni compagno catturato viene portato incappucciato in un luogo segreto e sottoposto a sevizie di ogni genere. Non c’è da stupirsi poiché le leggi speciali di Cossiga sancivano proprio quest la libertà dei Carabinieri e della Digos di avere i militanti rivoluzionari catturati alla loro mercé per almeno quattro giorni. È equivalso alla legalizzazione della tortura. Un caso per tutti, l’ultimo in ordine di tempo: il compagno Maurizio Iannelli subito dopo la cattura è stato portato incappucciato in un appartamento segreto e seviziato per due giorni. Solo per il suo comportamento coraggioso è stato possibile denunciare immediatamente questo fatto che per altro la stampa di regime si è affrettata a mascherare secondo le veline governative.
Col senno di poi, la decisione di “giustiziare” Moro si è rivelata per voi un errore?
Il fatto stesso che ci venga posta questa domanda a quasi tre anni da quella battaglia, dà già la risposta. Se dopo quasi tre anni le lacerazioni apertesi nel gruppo di potere imperialista non si sono ancora ricomposte, non vediamo quale altra azione di guerriglia avrebbe potuto ottenere un successo maggiore.
Perché non avete detto niente sull’accusa mossa ad alcuni arrestati del “7 aprile” di essere membri della vostra Direzione strategica?
Ci sono stati gli arrestati del 7 aprile, dell’8 aprile, del 9 aprile... Ogni giorno gli sbirri dei corpi speciali arrestano decine di compagni. Perché questa è l’essenza della strategia dello stato imperialista: annientare l’intero movimento rivoluzionario. È questa linea che le Br sono mobilitate a sconfiggere creando l’alternativa del potere proletario armato. Mettersi a discutere con qualche giudice imbecille e forcaiolo non è proprio la nostra linea politica. Per capire il rapporto che ci lega alla magistratura basta ricordare i nomi dei giudici che abbiamo giustiziato.
Come giudicate i “terroristi pentiti” e come mai su questo problema non sembra abbiate dedicato molta attenzione?
Non è vero che non gli abbiamo dedicato molta attenzione. Abbiamo già detto che “il terrorista pentito” non esiste, è un’invenzione della propaganda di regime. Per quanto riguarda le spie ed i venduti l’attenzione che gli abbiamo dedicato è quella destinata solitamente ai pidocchi: quando li si scova li si schiaccia. La sorte che ad essi tocca è già stata indicata, senza equivoci nel carcere di Nuoro, alle Nuove... D’altronde, d’ora in avanti. costoro avranno paura persino della loro ombra, perché è fuori di dubbio che sono solo dei cadaveri ambulanti.
È vero che in seguito alle sconfitte di Prima linea e di altre formazioni minori molti militanti sono confluiti nelle Br?
L’esperienza del movimento rivoluzionario in questi anni si è concretizzata in molteplici forme organizzate che hanno espresso in modo parziale aspirazioni, bisogni ed esigenze che provengono dalle diverse componenti del proletariato metropolitano. Per fare un esempio ricordiamo ciò che è stata l’esperienza dei Nap e cosa ha rappresentato per il proletariato prigioniero. Chi lavora per costruire il Partito deve saper ricondurre i momenti parziali in un grande disegno unitario. È questo quello che le Br hanno sempre fatto.
Cosa pensate degli appelli alla diserzione che arrivano anche dall’interno del partito armato?
Alcuni giovani rampolli della borghesia, in tempi recenti, si sono presi una vacanza e hanno creduto di poter giocare con la guerra di classe. Oggi che lo scontro tra la borghesia e il proletariato si pone in tutta la sua durezza, proprio perché esistono le condizioni di una grande avanzata rivoluzionaria, la borghesia si ripiglia i suoi figli. Noi vorremmo disertare dalla catena di montaggio, dai lavori nocivi e spesso mortali, dalla disoccupazione, dall’emarginazione dei quartieri-ghetto, dalla ferocia dell’alienazione di questa società. Ma non ci è possibile farlo piagnucolando con i nostri papà. Per liberarci da questa miseria dobbiamo combattere, liquidare questo regime, costruire una società comunista. Disertare dunque? Non scherziamo, abbiamo appena cominciato.
C’è chi ha avanzato delle proposte di amnistia: secondo voi un’amnistia potrebbe servire ad arginare la spirale della violenza e a rendere meno “barbaro” lo scontro?
L’imperialismo punta allo sterminio, ai campi di concentramento, per avere una qualche possibilità di sopravvivenza. È questo regime che è barbaro e violento; è la banda democristiana e i suoi lacchè che è sanguinaria. Ci riesce impossibile immaginare una società pacificata finché costoro esisteranno sulla faccia della terra.
Come facevate a conoscere l’itinerario che Moro avrebbe seguito uscendo da casa il 16 marzo? C’è chi è convinto che abbiate avuto un basista (volontario o involontario) presso la sua famiglia (o gli amici): potete dirne qualcosa?
Dopo dieci anni che esistono le Br non avete ancora capito che l’intelligenza proletaria e l’organizzazione della guerriglia può arrivare dove vuole. E’ solo una questione di volontà politica e di avere una concezione dell’organizzazione adeguata ai tempi della rivoluzione proletaria nelle metropoli imperialiste. Per preparare, eseguire l’azione Moro ci siamo serviti, come sempre, solamente di queste armi.
Pensavate davvero di poter liberare Moro vivo? Alla fine dei 55 giorni, in cambio di che cosa ciò sarebbe potuto avvenire?
Siete così abituati a costruire verità di regime che ormai siete prigionieri delle vostre stesse mistificazioni. Ci sono ben 9 comunicati di quel periodo, semplici e chiari che ponevano la questione dei prigionieri comunisti chiedendo la liberazione di alcuni di essi. Una risposta positiva che avesse dato la libertà ad alcuni compagni, dicevamo che avrebbe senza dubbio liberato il nostro prigioniero.
Come mai Moro, nelle sue lettere, non ha mai nominato gli uomini della sua scorta uccisi?
Perché, evidentemente, non gliene fregava niente.
È vero che i brigatisti che avevano in mano Moro hanno ritardato di 48 ore l’esecuzione?
No.
È stato comunicato a Moro che sarebbe stato ucciso? Come ha reagito?
Sì, gli è stato comunicato. La sua reazione la potete leggere nei suoi memoriali che abbiamo reso pubblici. Proprio perché democristiano conosceva bene i suoi “amici” di partito e non aveva dubbi a chi attribuire la responsabilità effettiva del fatto che noi non avremmo sospeso la sentenza.
È vero che per sospendere la condanna a morte di Moro sarebbe bastata una dichiarazione di Fanfani sulla disponibilità della DC ad aprire le trattative?
Il problema che avevamo sollevato era quello dei prigionieri. Era un problema politico che i caporioni di questo regime, terrorizzati non hanno voluto affrontare. Hanno creduto di poter cancellare un problema semplicemente negando che esistesse. Se si tiene conto che le forze rivoluzionarie ritengono centrale questa questione – e la cattura di D’Urso lo dimostra – si vede come l’immobilismo, la “non lirica” suggerita dagli specialisti americani agli ottusi democristiani, non ha certo favorito soluzioni diverse da quelle che abbiamo adottato.
Si dice che, su indicazione di Moro, qualche suo collaboratore vi abbia consegnato dei documenti presi dal suo archivio e che comprovavano delle notizie che lui aveva fornito: è vero? Di quali documenti si tratta?
Non abbiamo avuto rapporti di alcun genere con chicchessia. In quanto ai documenti, ci bastavano quelli che avevamo preso al momento della sua cattura.
Ci sono state lettere che Moro ha scritto, o voleva scrivere e che voi non avete approvato o avete distrutto?
No. Tutto quanto ha scritto è stato reso pubblico. E ci sembra sia abbastanza.
Come è andata veramente la storia dell’appartamento di via Gradoli?
È stato un banale incidente, uno scarico era marcio e c‘è stata una perdita d’acqua. Perché mai ci si vuole vedere chissà quale retroscena, come se non si sapesse di che cosa sono capaci i palazzinari romani.
Molti (da Zaccagnini a Berlinguer, a Pecchioli...) affermano che le Br sono “dirette”, o comunque aiutate, da qualche servizio segreto straniero: che potete rispondere?
Questi egregi signori non dovrebbero far altro che dire esattamente di che si tratta, e dimostrare che non è solo frutto della loro fantasia bacata. A noi risulta che i servizi segreti e gli sgherri di ogni tipo sono il loro strumento privilegiato da usare contro i proletari. Pur di negare una realtà che non li fa dormire, hanno costruito la favoletta del complotto straniero, e delle oscure manovre. Ma a crederci ormai sono rimasti soltanto loro e qualche pennivendolo di regime. La guerra proletaria cresce e non si preoccupa molto delle loro stupidaggini.
È vero che parecchie armi ve le forniscono i palestinesi dell’Olp? In cambio di cosa?
Noi crediamo che nell’epoca della guerra proletaria antimperialista debba rinascere un nuovo internazionalismo proletario; un internazionalismo fatto di solidarietà concreta, di aiuto militante, di sostegno politico tra le forze che, nella lotta di liberazione dei popoli contro l’oppressione imperialista, combattono per il comunismo. La retorica revisionista sa concepire soltanto rapporti di pura convenienza e di squallida e vile strumentalizzazione dei movimenti antimperialisti. Non è così per noi. La nostra solidarietà al fianco del popolo palestinese in lotta contro l’imperialismo sionista è piena e incondizionata. Non saranno certo le calunnie di chi questa lotta l’ha solo strumentalizzata che ci faranno cambiare idea.
Avete rapporti, o contatti, con dei quadri di base del Pci che non condividono la linea del partito?
Il Pci sta percorrendo ormai le ultime tappe di un irreversibile processo di identificazione con gli interessi della borghesia. Ad esso la borghesia ha assegnato il ruolo di essere lo Stato dentro la classe operaia. In questo ruolo i berlingueriani ci si trovano completamente a loro agio. E’ evidente che questa funzione controrivoluzionaria produce contraddizioni al suo interno, ma la falsa coscienza di quei proletari che ancora hanno in tasca la tessera del partito di Berlinguer, non può che trasformarsi nella consapevolezza che devono uscirne. La nostra strategia è di conquistare ogni proletario, ogni operaio, alla linea rivoluzionaria della lotta armata per il comunismo e di organizzarlo negli organismi che costituiscono il sistema del potere proletario armato. In questo lungo processo anche le frange più arretrate del movimento operaio sapranno prima o poi riconoscere i loro interessi di classe.
Come potete definire l’estrazione politico-sociale dei vostri militanti di recente acquisizione?
Quella di sempre. Le nostre radici sono nel proletariato metropolitano e i nostri quadri provengono dalla sua avanguardia. Il problema della centralità operaia non è sociologico ma politico. Vuol dire che è intorno all’interesse della classe operaia che si organizzano tutti gli altri strati del proletariato. Ma non è neanche un problema metafisico o idealistico e pertanto i compagni delle Br sono prevalentemente operai.
Avete avuto dei contatti politici (o altro) con l’Albania?
No.
Cosa pensate del comunismo in Urss e in Cina? Per la futura società per la quale dite di battervi avete in mente un modello già realizzato, o descritto?
Le questioni dell’edificazione di una società comunista non sono questioni da poco e sulle quali è lecito pontificare come se si trattasse di esperimenti di laboratorio e non di un movimento che riguarda miliardi di uomini in tutto il mondo. I nostri riferimenti sono e rimangono il marxismo-leninismo e la rivoluzione culturale cinese. Siamo abituati a considerare il comunismo non come un modello, ma come un lungo processo di dimensioni planetarie, che non consente sogni immaginifici ma richiede risposte storicamente valide. Ciò non toglie che siamo fermamente convinti che chi fa una politica espansionista e di oppressione della libertà dei popoli, qualunque sia il nome che si dà, appartiene alla schiera degli imperialisti.
A questo punto credete ancora di poter suscitare un movimento insurrezionale in Italia attraverso la violenza politica?
Non abbiamo mai pensato a una esplosione insurrezionalista. Crediamo invece nella possibilità storica di costruire un sistema di potere proletario armato attraverso un processo di lunga durata. L’accumulo della forza proletaria attraverso l’organizzazione politico-militare delle due determinazioni fondamentali, il Partito comunista combattente e gli organismi di massa rivoluzionari, attraverserà un’intera fase storica. Non c’è dubbio che questo non avviene linearmente, ma per salti dialettici e che in definitiva il pieno dispiegamento della guerra rivoluzionaria distruggerà lo stato borghese e costruirà la società comunista. Questa per noi non è solo una speranza, ma una certezza che si alimenta delle ragioni e delle aspirazioni del proletariato.
Il vostro ex capo colonna Riccardo Dura, secondo la testimonianza di alcuni “pentiti” genovesi, adoperava con i suoi uomini dei metodi estremamente duri e ricattatori: quello che si è detto è vero? Che ne pensate?
Questa è la più schifosa e vigliacca delle invenzioni della controguerriglia psicologica. Roberto è stato un grande dirigente della nostra organizzazione, amato e stimato come pochi altri. Con la sua umanità, con la sua capacità di vivere da comunista insieme agli altri, con la sua solidarietà verso i compagni nei momenti più difficili ci ha dato più di quanto i pennivendoli di regime riusciranno mai a capire. Siamo orgogliosi di averlo avuto accanto in questi anni così come sentiamo nostri fratelli tutti i compagni caduti per il comunismo.
L’uccisione di proletari, semplici uomini al di fuori dei giochi di potere, non vi crea problemi di coscienza o, forse, di coerenza ideologica?
Quando mai le Br hanno colpito dei proletari innocenti? Questo non è accaduto mai, neanche per sbaglio. Se poi ci si riferisce ai mercenari in divisa che hanno venduto la loro identità di classe alla borghesia e ai suoi interessi, tradendo così le loro origini, e si sono trasformati in feroci assassini del proletariato, crediamo che nei loro confronti non bisogna avere nessuna pietà. A loro abbiamo già detto che devono cambiare mestiere. Non abbiamo che da ripetere questo consiglio.
Il “soldato” Dalla Chiesa vi sembra un rivale abile e pericolos insomma un nemico degno di stima?
No, è solo uno sbirro al quale hanno dato il massimo del potere.
Mario Scialoja