13 settembre 2011
Tags : Pierfrancesco Pacini Battaglia
Biografia di Pierfrancesco Pacini Battaglia
Bientina (Pisa) 21 febbraio 1934. Banchiere. Definito dal pool “Mani Pulite” «un gradino sotto Gesù Cristo, un gradino sotto Dio», il 10 marzo 1993 si costituì confessando di aver gestito con la sua banca Karfinco circa 500 miliardi di lire di fondi neri Eni. Rilasciato senza fare un giorno di carcere, con la sua collaborazione permise di scoprire tangenti miliardarie ai partiti e nei Paesi del petrolio. Arrestato il 15 marzo ’96 con l’accusa di aver corrotto Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, stavolta rimase in carcere due mesi, durante i quali fecero scalpore alcune intercettazioni telefoniche captate dalle Fiamme Gialle. In un nastro dell’11 marzo diceva: «Io sono uscito da Mani pulite soltanto perché si è pagato, non cominciamo a rompere i coglioni: quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno entrati, forse se io avessi studiato la strada prima non sarei nemmeno entrato in Mani pulite». Antonio Di Pietro replicò con un’intervista al Tg3 del 23 settembre 1996: «Non c’è mai stato alcun interesse privato, personale, tra noi e Pacini Battaglia e quindi lui se ha delle cose da dire le dica per dissolvere tutti i dubbi. Altra cosa certa: se qualcuno dice che con Pacini Battaglia abbiamo usato i guanti di velluto, si sbaglia di grosso. Esistono quintali di documenti, lo abbiamo ascoltato per decine di ore, lo abbiamo interrogato almeno venti volte. All’epoca svelò fatti di eccezionale rilevanza sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Ora tutti sanno che cosa è Tangentopoli, ma all’epoca bisognava scavare, scavare. Certo Pacini Battaglia, come quasi tutti gli inquisiti di Tangentopoli, ha detto solo una parte di quello che sapeva, ma non potevamo mica torturarlo. Ho letto che si vanta di aver avuto un’archiviazione a Milano. Non è vero. Io ho lasciato la procura il 7 dicembre e non il 6 perché come ultimo atto ho chiesto il rinvio a giudizio di Pacini Battaglia. A Milano è stato inquisito diverse volte, io ho chiesto decine e decine di rogatorie in Svizzera proseguite dai miei colleghi... Dice una mostruosità chi afferma che Pacini ha avuto un trattamento di favore, e se si dice che lo abbiamo fatto per motivi diversi si dice una calunnia». E poi: «Ho sentito dire che sarei stato io, quel giorno di marzo del ’93, a mandare via sbrigativamente Pacini. Quell’interrogatorio non l’ho fatto io e non sono stato io a rimettere in libertà Pacini Battaglia. Chi ha preso la decisione l’ha presa perché aveva il parere positivo di tutti i colleghi dopo l’apporto collaborativo di Pacini Battaglia». Il 10 ottobre 1996 uscirono nuove intercettazioni(colloqui con l’avvocato Marcello Petrelli) in cui pareva dire «A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato» (poi corretto da Pacini in “sbiancato”) per poi accennare a un misterioso conto estero intestato a Mazzoleni, cognome della moglie e del suocero del magistrato simbolo di Mani Pulite. Di Pietro, ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi, replicò con una denuncia depositata nella caserma dei carabinieri di La Spezia: «Escludo che io o i miei familiari abbiamo una lira all’estero». Rosario Lucibello, che gli aveva fatto da avvocato, denunciò lo «stillicidio sospetto» e l’«inaccettabile metodo della estrapolazione di frasi» che porta a uno «stravolgimento» del significato complessivo delle intercettazioni. A processo per corruzione, il 18 febbraio 1999 furono tutti assolti dal Gip di Brescia Anna De Martino («perché il fatto non sussiste»). Il 26 ottobre 2005 fu condannato in via definitiva a sei anni per l’appropriazione indebita di 120 milioni di lire di fondi neri dell’Eni: nonostante i 5 by-pass coronarici, il 4 novembre entrò nel carcere di Pisa, dove il 12 novembre ebbe un infarto. Tre anni condonati dall’indulto, affidato ai servizi sociali, nel dicembre 2006 divenne bibliotecario del municipio di Bientina, suo paese natale. Il 3 giugno 2010 fu assolto dal tribunale di Perugia nel processo ereditato dalla procura di La Spezia (alta velocità), finito in Umbria per il coinvolgimento nelle indagini di alcuni magistrati romani.