La Gazzetta dello Sport, 12 febbraio 2008
Ci sarà un processo per i fatti dell’11 settembre 2001, e si terrà a Guantanamo, la base militare americana a Cuba
Ci sarà un processo per i fatti dell’11 settembre 2001, e si terrà a Guantanamo, la base militare americana a Cuba. Gli imputati, per ora, sono sei e il Pentagono chiederà di metterli a morte.
• Chi sono?
I nomi non le direbbero niente. Il più famoso è Khalid Sheikh Mohammed, pakistano. Ieri le agenzie mostravano una sua foto. Un’aria sporca, un occhio semichiuso come se fosse appena uscito dal pestaggio, i capelli arruffati, una canottiera strapazzata. Quando lo interrogarono Khalid disse di essere responsabile dell’11 settembre «dalla A alla Z». E aggiunse che Bin Laden era per loro quello che George Washington era stato per gli americani. «Se George Washington avesse perso la guerra, gli inglesi lo avrebbero considerato come gli americani oggi considerano Osama». Disse ancora: ho tentato io di far saltare il World Trade Center nel 1993 sempre col sistema di mandarci a sbattere contro un aereo; ho messo io le bombe nelle discoteche di Bali; ho fatto saltar per aria io i turisti israeliani in Kenya; ho tagliato io la testa a Daniel Pearl, il giornalista americano, nel 2002. Esattamente, su quest’ultimo fatto, disse: «Con questa mia mano destra benedetta ho tagliato la testa dell’ebreo americano».
• Pazzo?
Chi sa. L’attenzione di tutti si sta concentrando adesso non sulle cose terribili che ha confessato, ma sul modo con cui gli americani hanno ottenuto quelle confessioni, sui diritti di difesa che saranno garantiti a lui e agli altri cinque imputati e sulle modalità delle fasi successive del procedimento, fino alla pena capitale e all’esecuzione. Non è difficile prevedere un’ondata di emotività planetaria. Del resto, sarà un problema del successore di Bush. Gli altri cinque detenuti di Guantanamo che rischiano di finire davanti al boia si chiamano Mohammed al-Qahtani, Ramzi bin al-Shibh, Ali Abd al-Aziz Ali, Mustafa Ahmed al-Hawsawi e Walid bin Attash, noto con il nome di battaglia di Khallad. Le dicono qualcosa?
• Niente di niente. Ma mi sta dicendo che il processo non sarà regolare?
Non sono sicuramente stati regolari gli interrogatori, intanto per la semplica ragione che non si sono svolti alla presenza dei difensori. E poi i prigionieri sono stati torturati. Se mi passa l’espressione: sono stati “legalmente” torturati.
• In America la tortura è legale?
Dopo l’11 settembre, gli americani ammisero un sistema di sicurezza imperniato su quattro punti: il Patriot Act, col quale si sopprimevano a favore del governo alcuni diritti civili elementari; la formazione di un esercito di riformisti adatto al pronto intervento; una giustizia militare sommaria ed extraterritoriale, da esercitare a Guantanamo, Abu Ghraib (Iraq) e Bagram (Afghanistan); il ricorso massiccio ai signing statements, cioè la dichiarazione con cui il presidente, nel firmare una legge approvata dal Congresso, si riserva di applicarla secondo i propri criteri.
• Non ci fu un’opposizione a questi provvedimenti?
Anzi, negli Stati Uniti, nel 2002, c’era un forte movimento di personalità progressiste o liberali – uomini e donne che magari oggi si sono pentiti – esplicitamente favorevole all’uscita dalla Convenzione di Ginevra e all’abbandono del trattato anti-tortura dell’84. Il caso più clamoroso fu quello dell’avvocato Dershowitz, un faro della cultura liberal statunitense, che propose di legalizzare la tortura, di ingaggiare dei professionisti, di autorizzare – sotto il controllo della magistratura – l’uso delle scosse elettriche e degli aghi sterili conficcati sotto le unghie. Da quel momento si crearono le premesse giuridiche per considerare i detenuti per terrorismo non degli imputati ma dei nemici, per lasciarli alla mercè delle commissioni militari, per portarli infine dritti al patibolo. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 12/2/2008]