30 giugno 2011
La versione di Petrini
Tratto da Nel Fangodel dio del pallone
«Al termine della seduta di quel venerdì, poco dopo le ore 14, mi si avvicinò il presidente juventino Boniperti accompagnato dall’avvocato Chiusano: disse che voleva parlarmi in disparte, andammo nell’ufficio-box della società bianconera all’interno della Federazione. A quel punto Boniperti disse: “Petrini: è nell’interesse di tutti – nostro, ma anche suo – che domani Cruciani non venga in aula a testimoniare. Noi rischiamo la retrocessione in serie B, ma lei rischia la radiazione... Bisogna rintracciare Cruciani e convincerlo a non presentarsi”. Poi il presidente juventino aggiunse: “Gli dica e gli prometta quello che vuole, ma lo convinca a non essere qui domani... Se lei darà una mano a noi, poi noi daremo una mano a lei”. Non la feci tanto lunga: ero così solo e disperato che per avere “una mano” dalla Juve avrei fatto qualunque cosa. Risposi: “Ci provo, anche se non ho la minima idea di dove sia adesso Cruciani”. “Si sbrighi a trovarlo”, concluse Boniperti, “ci sono solo pochissime ore di tempo... Gli dica pure che ha parlato con noi, e gli prometta quello che vuole”. Raggiunsi Savoldi, Colomba, Dossena, Paris e Zinetti, che si erano fermati ad aspettare che finissi di parlare con il presidente della Juve, e appena uscimmo dalla sede della Federazione gli riferii quello che mi aveva detto Boniperti.In effetti conveniva anche a noi che Cruciani, l’indomani, non si presentasse in aula. Così andammo tutti di corsa al mio albergo, e io cominciai a cercare Massimo. Erano da poco passate le 15. Feci qualche telefonata a Roma, ma senza fortuna: nessuno sapeva dirmi dove fosse. Allora chiamai l’amico Roberto, e gli chiesi di aiutarmi a rintracciare Cruciani al più presto. Aspettai insieme agli altri cinque fino alle 18 passate. Poi finalmente l’informatore romano si fece vivo: Cruciani era in un albergo di Milano, mi diede il telefono. Lo chiamai, dissi che gli dovevo parlare di una cosa urgente e importante, se era disposto a incontrarmi; mi rispose di sì. Lo pregai di aspettare: l’avrei richiamato nel giro di pochi minuti per dirgli il posto dell’appuntamento, Dove avremmo potuto incontrarci, senza essere visti? Intervenne Beppe Dossena: “Mia madre abita a due passi da San Siro, vicino al cancello numero 5... La sera è un posto deserto”. Richiamai Cruciani: ci accordammo per incontrarci alle ore 23 davanti al cancello numero 5 dello stadio di San Siro. Verso le 20 io, Beppe e Colomba arrivammo a casa della signora Dossena. La padrona di casa ci preparò la cena, arrivò anche la fidanzata di Beppe. Ero nervosissimo, come se di lì a poco avessi dovuto fare una rapina.
Era fine maggio, una serata afosa, per cui c’era chi passeggiava intorno allo stadio: il rischio che qualcuno riconoscesse me o Cruciani, o tutti e due, mentre ci parlavamo, era concreto. Dopo averne discusso a tavola, decidemmo che sarei andato all’appuntamento travestito. Sistemammo un piccolo cuscino in una maglia della signora Dossena per ingobbirmi e me la infilai; poi indossai un vecchio pastrano del padre di Dossena, e inforcai un paio di occhiali da vista. Ripensandoci oggi, mi sembra tutto assurdo: conciato in quel modo rischiavo di attirare l’attenzione, invece di allontanarla. Ma le cose andarono proprio così. Quando si avvicinò l’orario dell’appuntamento la signora Dossena e la fidanzata di Beppe fecero da staffette: fingendo di portare a spasso il cane, si incamminarono verso il cancello numero 5. Io le seguii a distanza: morivo dal caldo, il cuore mi batteva come un tamburo, avevo una paura fottuta. Aspettai cinque-dieci minuti, poi davanti al cancello 5 arrivò un taxi, dal quale scese Cruciani. Mi guardai intorno, poi lo avvicinai: “Massimo!’. Lui mi osservò incredulo: «Ma come cazzo te sei combinato!”, esclamò con la sua calata romanesca. Cominciammo a passeggiare, Beppe e Colomba ci seguivano a una cinquantina di metri. Riferii a Cruciani quello che mi aveva detto Boniperti: l’indomani non si doveva presentare al processo, gli dissi che se non fosse andato a testimoniare quelli della Juve gli avrebbero fatto avere 70 milioni. Mi aspettavo che lui non credesse subito alle mie parole, invece disse: “Va bene... domani sparisco. Ma dije un po’ che me devono pagà bene, sennò ritorno e ve faccio neri a tutti quanti!”».
Carlo Petrini