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 2008  ottobre 10 Venerdì calendario

Le Borse non sentono ragioni e sono andate giù anche ieri. Non così giù come nei giorni precedenti, ma sempre giù

Le Borse non sentono ragioni e sono andate giù anche ieri. Non così giù come nei giorni precedenti, ma sempre giù. La mattinata era filata via bene, con tutti gli indici sopra lo zero, al punto che anche Wall Street – sensibilissima ormai a quello che accade in Europa – aveva aperto allegra, e intorno alle nostre quattro del pomeriggio si pensava che la tormenta avrebbe avuto un giorno di pausa. Ma alle quattro e mezza in America sono arrivati i dati d’agosto sul commercio all’ingrosso e s’è scoperto che le vendite sono diminuite dell’1% mentre le giacenze in magazzino sono aumentate dello 0,8. Gli economisti appiccicano le etichette sulla base di dati come questi e l’etichetta in questo caso – data la combinazione col numero dei disoccupati in aumento e con le difficoltà di farsi prestare i soldi dalle banche – è “recessione”. Gli operatori di Wall Street hanno cominciato a vendere a tutto spiano e gli europei gli sono andati subito dietro. Milano, positiva fino alle cinque meno un quarto, ha buttato all’aria tutto e ha chiuso a -1,63%, che può sembrar poco rispetto alle batoste dei giorni scorsi e invece è molto. L’Europa ha bruciato altri cento miliardi di valore. Unicredit tuttavia si è ripresa: +5,5.

Merito del decreto del governo?
Penso di sì. Berlusconi ieri ha rilasciato una dichiarazione specifica su quella banca tanto tormentata: «Le banche italiane non sono intossicate dai titoli americani. C’e’ una sola banca, l’Unicredit, che, avendo acquistato una banca tedesca, ha avuto problemi di capitalizzazione ed è stata chiamata dalla Banca d’Italia a coprire le perdite della filiale tedesca. Ma il problema e’ gia’ stato risolto».

Che cosa dobbiamo pensare di questo decreto del governo, e in generale della situazione?
Le ho già detto ieri che la mossa del governo è buona. Non solo: la mossa del governo ci dice implicitamente che le banche italiane sono effettivamente solide. Basta guardare la somma messa sul tavolo: appena 20 miliardi di euro. Faccia il confronto con le ultime mosse inglesi: 50 miliardi di sterline destinati a ricapitalizzare le banche, 200 miliardi di sterline a disposizione degli istituti per prestiti da restituire in tre mesi, garanzie sui crediti a medio termine delle banche per 250 miliardi. Cinquecento miliardi di sterline contro venti! Non parliamo poi degli americani: la Federal Reserve s’è praticamente messa a scontare le fatture, perché le banche non sono più in grado di anticipare alle imprese neanche i soldi di queste modestissime obbligazioni. Si tratta di roba per 1500 miliardi di dollari, più o meno tutto il nostro debito pubblico.

Come fa a dire che la nostra situazione è buona se abbiamo tutti quei debiti?
Sta parlando del nostro debito pubblico? vero, quello resta un problema grandissimo. Ieri mattina alla Camera Tremonti lo ha ricordato: abbiamo il terzo debito pubblico del mondo e non siamo la terza potenza industriale del mondo. Non è quindi minimamente pensabile una politica di deficit spending.

Che significa?
«Spendere in deficit», spendere più di quanto si ricava. La Bce ha leggermente rallentato i vincoli del Patto di stabilità. E, suppongo, dovrà allentarli ancora per rendere possibile l’intervento dello Stato a favore delle banche o magari delle imprese in procinto di fallire. Questo significa che l’Europa consente ai suoi membri di indebitarsi un po’ più del solito, a causa dell’emergenza. Ci fosse ancora Giordano al governo, cioè il segretario di Rifondazione dei tempi di Prodi, chiederebbe subito di distribuire a pioggia questa possibilità di far debiti ai ceti meno abbienti, in nome del cosiddetto “risarcimento sociale”. Tremonti ha sostenuto invece che il governo, con quel debito sul collo, non intende assolutamente peggiorare i nostri conti.

E allora in che modo si affronterà la crisi?
Berlusconi ieri ha detto che uno dei pericoli è che le banche asfissino le imprese non concedendo credito. Avremmo così meno produzione, meno consumo e un Pil negativo. Forse il premier pensa davvero di sfruttare i vincoli meno stringenti dell’Europa per diminuire la pressione fiscale. Mario Deaglio e la sinistra gli chiedono di tagliare l’Irpef dei più poveri (si incoraggerebbero così, secondo loro, i consumi). Ieri invece il Cavaliere ha detto di essere tentato da una lotta serrata a quel 22% di italiani che evade e da un taglio delle tasse sulle imprese. «I rumeni mi hanno raccontato che per far ripartire la loro economia hanno abbassato il prelievo sui profitti delle società al 16%. Le entrate gli si sono subito quasi raddoppiate». [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 10/10/2008]