17 marzo 1861
L’Europa ci guarda
• L’articolo pubblicato oggi sul quotidiano torinese L’Opinione.
Tutti quanti i parlamentari che vi sono in Europa si
occupano delle cose nostre e dibattono fortemente, se o no dobbiamo essere. Noi
di questi giorni abbiamo detto francamente: Siamo. L’abbiamo detto per l’organo
del Parlamento; l’abbiamo detto per virtù dei nostri soldati che riducevano in
nostra mano gli ultimi baluardi in cui si ricettavano gli ostacoli alla nostra
unità.
In tutti i parlamenti la quistione d’Italia è quella per cui
si accendono le lotte più infuocate, è quella sulla quale i partiti sembrano
divisi in modo più irreconciliabile, e noi su questo grande quesito dell’essere
e del non essere, sulle nostre dispute colla Santa Sede, sulle nostre speranze
a riguardo di Roma e Venezia, siamo stati unanimi; talché, con gottesca
ingenuità, sclamava a ragione un foglio clericale: questa benedetta causa del
Papa trova sostegni ovunque, nella cattolica Spagna come nella Francia di
Voltaire, e nella scismatica Inghilterra; dappertutto, insomma, fuori che in
Italia, dove non una parola fu pronunciata, non un voto fu gettato nell’urna a
di lei vantaggio! Ed è vero, e se a questo mondo fosse un maggior rispetto per
i proverbii che sono il risultato della sapienza umana, e si meditasse quello
che dice: saperne meglio un pazzo in casa sua che un savio in casa altrui,
dovrebbe questa unanimità degli italiani pesare assai sul giudizio che altri si
compiace di profferire su cose che al giusto non si conoscono fuori d’Italia.
Non è infatti comune il sentir dire che si deve cedere alla
rivoluzione, e la rivoluzione saremmo noi! Ma dove è questo lievito
rivoluzionario in Italia, dove il signor Giuseppe Mazzini non può mettere
piede; dove i pochi seguaci che più apertamente ne aveano patrocinato le idee
furono esclusi dalla Camera per voto degli elettori?
Bei rivoluzionarii invero abbiamo nel Senato e nella Camera!
Si lasci un solo momento in disparte la questione nazionale per la quale tutti
gli italiani hanno un sol cuore, una sola opinione, e poi vedranno quanto
facilmente una maggioranza conservativa si costituirà in quei recinti, dove al
dire degli stranieri non seggono che montagnardi, cartisti, progressisti e sansculottes!
Nelle Camere spagnuole ha menato rumore il discorso dell’on.
sig. Sagasto, uno dei più giovani e più eloquenti oratori della parte liberale.
Le frasi che sollevarono una vera tempesta furono che gli spagnuoli mandando
via Carlo V e chiamando Dona Isabella avevano fatto né più né meno dei
napoletani e siculi liberandosi di Francesco II per chiamare Vittorio Emanuele;
e che il governo della regina aveva fatto male a dare maggior peso alle
relazioni della famiglia di questa, di quanto non desse alla comunanza
degl’interessi che la nazione spagnuola ha con ogni altro popolo libero. Si
poteva forse dir più giusto?
Nelle Camere francesi gli oratori dell’opposizione
appartengono quasi tutti al partito legittimista. Lo scopo delle loro orazioni
non era di guadagnare una causa, ma di sfogare un risentimento. E lo fecero a
loro grande agio. Buon pro. Al Parlamento inglese la quistione nostra ha quasi
diritto di città, e ad eccezione di qualche scappata che si perdona al signor
Bowyer, al signor Normanby e che d’ora innanzi perdoneremo al signor Roebuck,
viste le importanti ragioni che lo mossero a farsi campione dell’Austria, si è
quasi sempre scuri di trovare un giudizio simpatico ai nostri interessi e alle
nostre aspirazioni. (...)
Il governo austriaco si mostra in questi giorni fiducioso di
vincere col solito suo stratagemma l’ostilità delle popolazioni a lui
sottomesse. L’Ungheria si commove, e contro di essa si suscita il sentimento
ostile dei serbi, dei croati e dei transilvani. La Dalmazia non è contenta e si
mettono alle prese i due elementi che si contendono su quella striscia di
terra, l’italiano cioè e lo slavo. Il germanismo si contiene collo slavismo; la
Gallizia colla Lodomiria; il liberalismo cogli interessi aristocratici delle
grandi famiglie dell’impero. Mancano pochi giorni alle elezioni delle diete provinciali,
da cui devono essere eletti i membri del consiglio rinforzato; e la confusione,
la incertezza degli animi è al suo colmo, talché non è difficile prevedere che
il governo poteva fare eleggere chi vuole dappertutto, meno che in Ungheria,
dove pare siasi adottato per parte dei magiari il principio dell’astensione.
E non mancano già coloro che ricominciano a decantare la
grande abilità del governo austriaco e la sua fortuna a cavarsi dagli
imbarazzi. Sì, se con queste gherminelle potesse dissipare le difficoltà che lo
travagliano; ma non si dimentichi, se vuolsi ragionar giusto, che fu il governo
austriaco stesso quello che, sospinto dalla disperazione, si rivolse all’idea
d’una rappresentanza popolare come a quella che poteva porgergli una mano e
trarlo dalla rovina; ed è facile lo scorgere che quando a furia di artificii
sarà riuscito a falsificare lo strumento da cui sperava la sua salvezza, si
sarà aperta più larga e più sicura la via alla rovina. Forse che le popolazioni
potranno aver fiducia in una rappresentanza, nella quale si vedesse troppo
chiaramente la mano del governo e per nulla l’influenza dei loro desideri?
Un grave dubbio regna ancora sul modo con cui verrà sciolta la crisi che si manifestò
nella Polonia russa. Ed in Europa si sta aspettando con molta ansietà questa
soluzione perché, come abbiamo detto, anche nella settimana scorsa, questa
dovrà aver conseguenze non solo sulla politica interna di quel vasto impero, ma
anche sulle sue relazioni estere. Sinché dura questa incertezza è inutile il
credere che possa essere decisa la quistione della Siria e tutto
l’inestricabile imbroglio che mette capo a Costantinopoli. Il pagamento delle
tratte accettate dal banchiere Mirès per riguardo al prestito turco accennano a
un piccolo e forse passeggero miglioramento sotto l’aspetto finanziario. [Op.
17/3/1861]