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 2009  aprile 11 Sabato calendario

Partiamo da alcune frasi che si sono sentite nella luttuosissima giornata di ieri.• Quali frasi?Per esempio questa, del cardinale Bertone: «Sento nascere la speranza del cuore perché s’avverte già nell’aria che sotto le macerie c’è la voglia di ripartire, di ricostruire, di tornare a sognare»

Partiamo da alcune frasi che si sono sentite nella luttuosissima giornata di ieri.

Quali frasi?
Per esempio questa, del cardinale Bertone: «Sento nascere la speranza del cuore perché s’avverte già nell’aria che sotto le macerie c’è la voglia di ripartire, di ricostruire, di tornare a sognare». Oppure quest’altra, di Berlusconi: «Mi impegno davanti agli italiani a far rinascere il territorio e garantisco che troveremo tutti i fondi indispensabili». Parole che sono state seguite da questa spiegazione: «Tutte le case distrutte saranno ricostruite», «la new town da costruire vicino all’Aquila non sarà un ghetto, ma sarà fatta secondo il linguaggio architettonico locale sul modello di Milano 2 e di Milano 3».

Cioè si comincia a discutere un po’ più concretamente della ricostruzione. Mi vengono i brividi.
Non ha completamente ragione. Se ci sono dei modelli esecrabili – il Belice, l’Irpinia, ci sono anche dei modelli formidabili, come il Friuli o la ricostruzione di Alessandria dopo l’alluvione del 1993. Come sempre, l’Italia funziona e non funziona, ha le leggi e non ha le leggi, ha gli uomini e non ha gli uomini, è un Paese maledetto ed è un Paese benedetto.

Vediamo gli esempi da non seguire?
Per il Belice, che risale al 1968, stiamo ancora pagando: sulla benzina per esempio resiste un’accisa, una frazione di euro equivalente alle nostre vecchie dieci lire, che finanzia la ricostruzione. Qualche anno fa calcolarono che questa benedetta ricostruzione, ai ritmi attuali, sarà completata in 116 anni che bisognerà aggiungere ai 40 passati. Un secolo e mezzo in tutto. Secondo questi calcoli servirebbe ancora un mezzo milione di euro per l’edilizia privata e un 150 milioni per l’edilizia pubblica. Ma questi dati hanno davvero senso? Una ricostruzione a Gibellina in realtà è stata completata, ma inseguendo un sogno pazzesco di città d’arte, città avveniristica o passatistica (non lo so dire) e in realtà morta per la seconda volta. Andarono lì a realizzare le loro opere artisti come Burri o Consagra o Daniel Buren, sollecitati dal sindaco Ludovico Corrao – un sindaco, buonanima, che sarebbe stato meglio perdere che trovare – e l’effetto fu la realizzazione di una città lunare, che oltre tutto ha bisogno di una manutenzione abbastanza costosa (il Cretto di Burri è grande 65 mila metri quadri e il suo restauro, in corso, viene orgogliosamente presentato come «il più grande d’Italia»). So lo che nella città ricostruita da Corrao – che potremmo chiamare New Town, se l’espressione a questo punto non sembrasse polemica – non è andato ad abitare nessuno. I siciliani del Belice si sono rifatti la casetta da qualche altra parte e mentre Burri ricopriva le macerie con la sua colata di cemento bianco – affinché nessuno dimenticasse la tragedia – lo Stato continuava a finanziare non ho capito bene quale ricostruzione.

E l’Irpinia?
L’Irpinia scontò la presenza malavitosa e un tessuto industriale povero. Le imprese del Nord, pur di pigliarsi l’affare, erano pronte a pagare tangenti a chiunque, e le pagarono. Ma a parte questo, c’era pure il fatto che il Sud non aveva un tessuto produttivo adatto alla ricostruzione e i governi dell’epoca (il terremoto è del 1980) non sfruttarono l’occasione della catastrofe per crearlo. Così anche l’Irpinia resta un capitolo da di menticare.

Veniamo al Friuli.
Il Friuli, nell’anno del terremoto (1976), stava uscendo da una situazione di sottosviluppo, era cioè una regione già dinamica. La catastrofe accelerò il processo. I friulani si misero in testa di ricostruire fabbriche e case con le loro mani, un raro esempio di autoimprenditorialità. Inoltre quando, per cento lire perse, lo Stato ne metteva 60 loro ne mettevano altre 60, sicché il valore patrimoniale dei fabbricati salì del 20%. Ma l’esito socio-economico fu molto più alto. La disoccupazione scese dal 7-8 per cento al 3-4 (la disoccupazione zero non esiste), cominciò un flusso migratorio all’inverso: non solo i friulani non andavano più a lavorare all’estero (questo accadeva già dal ”71) ma arrivarono molti stranieri. Anzi è provato che l’immigrazione dal Terzo Mondo, quella contro cui tuona (per finta) il sindaco Gentilini a Treviso, cominciò proprio in occasione del terremoto. Infine le provvidenze dello Stato vennero prima destinate all’industria e poi alla ricostruzione delle abitazioni. I friulani erano d’accordo. Passarono l’inverno sulla costa, nelle case costruire per le vacanze e perciò vuote, ed ebbero pazienza a rientrare dando la priorità giusta alla ripresa economica complessiva. Quanto alla criminalità, praticamente non se ne vide l’ombra. I pochi mazzettari che provarono a farsi sotto all’inizio, finirono subito in galera. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 11/4/2009]