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 2009  giugno 01 Lunedì calendario

Sono passati vent’anni dai cosid­detti «incidenti della Piazza Tien An Men» e sembra che si tratti di episodi lontanissimi nel tempo e che poco hanno a che fare con la Cina e con il mondo di oggi

Sono passati vent’anni dai cosid­detti «incidenti della Piazza Tien An Men» e sembra che si tratti di episodi lontanissimi nel tempo e che poco hanno a che fare con la Cina e con il mondo di oggi. A Pe­chino c’era una classe dirigente di cui s’è quasi persa memoria, dei vegliardi che bisognava porta­re sul palco a braccia…

Mao c’era?
Era morto da tredici anni. La ve­ra figura dominante del Paese era Deng Xiao Ping, che non ave­va però cariche importanti, a parte la presidenza della Com­missione militare. Con l’espres­sione “incidenti della Piazza Tien An Men” si intende una ri­volta scoppiata nell’aprile1989 e finita in giugno, che ebbe il suo culmine a metà maggio, con l’occupazione della grande piazza di Pechino. In certi gior­ni fino a un milione di persone. Il mondo ricorda quella ribellio­ne capitanata dagli studenti uni­versitari soprattutto grazie a un episodio clamoroso: a mezzo­giorno del 5 giugno una fila di carri armati si presentò all’im­bocco della piazza, preparando­si ad occuparla. La notte tra il 3 e il 4, i soldati avevano sparato sulla folla ammazzando tra le cinquecento e le tremila perso­ne. Non sembrava più possibile nessuna resistenza. Ma un ra­gazzo che aveva appena fatto la spesa e stringeva in ogni mano una busta di plastica si mise da­vanti al primo carro armato del­la fila e gli impedì di prosegui­re. Quello girò il muso verso de­stra, e il ragazzo balzò a destra, agitando il sacchetto che tene­va nella mano destra. Allora il carro provò a girare a sinistra e, allo stesso modo, il ragazzo bal­zò a sinistra, opponendoglisi con il solo corpo e con il sacchet­to che impugnava a sinistra. Le autorità cinesi tenevano la stam­pa a distanza, ma Jeff Widener, fotografo dell’Associated Press, stava al sesto piano del suo al­bergo e si sporgeva dalla fine­stra che guardava sulla piazza. Scattava foto su foto e all’inizio aveva persino imprecato contro quello studente che gli impedi­va di riprender bene la fila dei carri armati. Le sue foto fecero poi il giro del mondo. Dello stu­dente nessuno conosce il nome, nessuno sa che fine abbia fatto.

Come cominciò la rivolta?
Era morto un uomo politico di nome Hu Yaobang, che nel 1987, da segretario del partito, aveva appoggiato le rivolte stu­dentesche e per questo era stato allontanato. Gli studenti delle due università cittadine scesero in piazza per onorarne la memo­ria e restarono giorni e giorni a manifestare, senza dar segno di voler smettere. Dai vegliardi che governavano il Paese, nes­suna reazione: sembravano scomparsi. Bisogna ricordare che in Russia era salito al potere Michail Gorbaciov e che tutto il mondo comunista era scosso dalle prime avvisaglie della cri­si finale. Gorbaciov era già avan­ti nella demolizione del vecchio regime sovietico condotta attra­verso due parole che tutto spie­gavano e promettevano: pere­strojka e glasnost, cioè «ricostru­zione » e «trasparenza». Di lì a poco sarebbe stato abbattuto il muro di Berlino e sarebbero ve­nuti giù i vecchi regimi in Un­gheria, Bulgaria, Romania. An­cora pochi anni e la Cecoslovac­chia si sarebbe divisa, la Jugo­slavia sarebbe esplosa. I capi ci­nesi avevano paura. Ma gli stu­denti sapevano che il 20 maggio sarebbe arrivato a Pechino lo stesso Gorbaciov, per ricucire il trentennale strappo con la diri­genza cinese. Uno spettacolo che gli stessi cinesi volevano mostrare a tutto il mondo. Il mondo vide invece anche que­sto milione di giovani, uomini e donne, che stavano sulla piazza a protestare contro la corruzio­ne dei dirigenti e l’arretratezza del Paese.

Perché il regime non si aprì già allora?
Proprio la crisi internazionale del comunismo convinse i capi cinesi ad adottare il pugno di ferro. Ne andava della loro stes­sa sopravvivenza. Fu stabilita la legge marziale, un provvedi­mento che in passato era stato preso una sola volta, a Lhasa, al tempo della rivolta dei tibetani.

Quanta gente venne ammazza­ta?
I cinesi non hanno mai fornito una loro versione ufficiale dei fatti del 4 giugno 1989. Ci sono stime diverse: forse cinquecen­to persone forse tremila. Parlo dei cadaveri lasciati sulla piaz­za quando all’esercito fu dato l’ordine di sparare sulla folla. Ci sono poi i morti successivi, quel­li processati e condannati per aver preso parte o capitanato la rivolta. Con questi, si potrebbe arrivare a cinquemila.

La Cina oggi sarebbe diversa se il governo avesse reagito in altro modo alla rivolta degli stu­denti?
Chi può saperlo? Il Paese cresce­va già allora a un ritmo del 10 per cento l’anno. Deng – la men­te della carneficina – fu poi quel­lo che negli anni Novanta aprì il Paese al mercato e mise le basi per fare della Cina la potenza mondiale che è oggi. La politica ha poco a che fare con la morale e la prosperità è tante volte l’ul­timo effetto di una sequenza di orrori. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 1/6/2009]