La Gazzetta dello Sport, 15 marzo 2010
Ieri Berlusconi è andato al San Raffaele di Milano per festeggiare i novant’anni di don Verzè. Dopo i soliti commenti relativi all’«atmosfera avvelenata» della politica messa a confronto con le «parole positive e i buoni sentimenti» di questa «mattinata splendida», il premier s’è soffermato sull’idea di don Verzé, espressa già nel 2007, secondo la quale è ormai alla portata dell’essere umano una vita media di 120 anni
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Ieri Berlusconi è andato al San Raffaele di Milano per festeggiare i novant’anni di don Verzè. Dopo i soliti commenti relativi all’«atmosfera avvelenata» della politica messa a confronto con le «parole positive e i buoni sentimenti» di questa «mattinata splendida», il premier s’è soffermato sull’idea di don Verzé, espressa già nel 2007, secondo la quale è ormai alla portata dell’essere umano una vita media di 120 anni. Berlusconi: «Don Verzè pensa che la vita media arrivi a 120 anni, ma quando ci parliamo io e lui ci diciamo che noi vivreno almeno 30 anni di più. Questo della vita di 120 anni è un progetto che si può realizzare studiando il nostro passato e con uno stile di vita apposito per ciascuno di noi, credo che si possano aggiungere anni alla nostra vita, aggiungendo spirito e qualità. Su questo progetto vale la pena di investire perché riguarda l’umanità».
• Lei ci crede?
Ma intanto notiamo che don Verzè, il quale sta costruendo tra le colline del Veneto il centro Quo Vadis destinato a chi è sano e non vuole ammalarsi, quando parla dei 120 anni cita la Bibbia: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni» (Genesi, 6). Si potrebbe pensare che in un libro in cui è scritto che Adamo visse 930 anni, Set 912, Matusalemme 969 (record), Noè 950, i 120 di cui parla in quel punto Iddio siano poca cosa. Ma intanto don Verzè, che è un prete, vuole dirci che non si commette peccato di ”ubris”, cioè di tracotanza, a voler vivere il più a lungo possibile perché la stessa Bibbia, con una cifra più umana di quelle dei patriarchi, elogia e prevede la longevità. C’è anche Isaia 65, 20: «Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni, poiché il più giovane morirà a cent’anni».
• Va bene, questi sono i testi sacri. Ma la scienza?
La scienza dice di sì, che effettivamente vivremo di più e probabilmente sempre di più. Il biogerontologo Aubrey de Grey considera “banali” i 400 anni e a portata di mano i duemila o i cinquemila. Sui cinquemila questo scienziato è praticamente solo, e benché non si sia riusciti a dimostrare che i suoi ragionamenti non stanno in piedi, non c’è neanche la prova definitiva che abbia ragione. Ai quattro secoli, invece, crede più di uno. Oh, naturalmente sto parlando di scienziati, non di maghi.
• Quattro secoli? Ma quattro secoli da giovani, da vecchi o da che cosa? E le donne faranno i figli a quanti anni?
Le cito un libro di Luciano Sterpellone, medico e storico della medicina, che ha dedicato alla questione un bel saggio intitolato Dagli Dei al dna (Delfino edizioni): «Dal punto di vista sociale, i 400 anni di età media sono un problema. Primo: si dovranno limitare drasticamente le nascite, perché in un mondo dove non si muore, non si può più nascere come prima. Anche così si raggiungerà rapidamente un livello di sovrappopolazione e, di conseguenza, vi saranno più inquinamento, più infezioni, più epidemie. Crisi delle fonti energetiche, crisi della vita sociale così come la conosciamo. Dovendo vivere 400 anni, non è pensabile che ci si sposi a 20. Dovendo vivere 400 anni, è difficile ammettere che ci si sposi “per tutta la vita”. L’età del primo figlio? Direi a cent’anni. Livello di istruzione: beh, sotto le cinque lauree (con tutto quel tempo a disposizione!) si sarà giudicati ignoranti. Rapporti giovani-vecchi? Tremendi: si instaurerà una gerontocrazia che difenderà il suo posto nella società per tre secoli consecutivi. Secondo me verso i 380 anni si comincerà a perdere la memoria per mancanza di spazio: il cervello sarà zeppo di dati. Temo che il nostro nemico principale sarà la noia».
• Si direbbe che scampare alla morte può essere un guaio.
In un certo senso sì. Madre Natura, facendoci morire ma lasciandoci trasmettere una metà del nostro patrimonio genetico, ha privilegiato la specie sull’individuo. Modificando questo meccanismo in modo abnorme potremmo forse ottenere una sorta di immortalità individuale, ma condanneremmo probabilmente il genere umano all’estinzione. Anche ipotizzando la sconfitta totale di ogni malattia, potrebbe poi farci secchi il caso. Una tegola in testa, qualcuno che ci accoltella di notte…
• Quante probabilità ci sono di morire per caso, una volta sconfitte le malattie?
Rickleb e Finch, scrivono ne L’invecchiamento (Zanichelli), che, sconfitte per sempre le malattie grazie alle riparazioni del dna o alla sostituzione di pezzi interi dell’organismo o al ringiovanimento delle staminali (che già ora possono retrocedere allo stadio infantile), saremmo praticamente immortali. Non del tutto però: il caso colpirebbe ciascuno di noi, ogni anno, col tasso di mortalità dell’adolescenza, cioè lo 0,05 per cento. Prima o poi, magari dopo un milione di anni, ce ne andremmo all’altro mondo lo stesso. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 15/3/2010]