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 2010  settembre 16 Giovedì calendario

La sparatoria dei libici contro l’“Ariete” è finita in politica. Ieri il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, è andato alla Camera a rispondere a un’interrogazione del democratico Matteo Mecacci, il quale ha chiesto la totale revisione del Trattato d’amicizia con la Libia e ha criticato il governo per aver appaltato a Gheddafi il problema dell’immigrazione clandestina violando, a suo dire, l’articolo 10 della Costituzione (diritto d’asilo)

La sparatoria dei libici contro l’“Ariete” è finita in politica. Ieri il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, è andato alla Camera a rispondere a un’interrogazione del democratico Matteo Mecacci, il quale ha chiesto la totale revisione del Trattato d’amicizia con la Libia e ha criticato il governo per aver appaltato a Gheddafi il problema dell’immigrazione clandestina violando, a suo dire, l’articolo 10 della Costituzione (diritto d’asilo). Vito, che parlava al posto del ministro degli Esteri Frattini, ha respinto tutte le accuse dicendo che la motovedetta da cui hanno sparato gli africani è stata regalata dall’Italia non in ottemperanza al Trattato d’amicizia, ma per via di accordi del 2007 (stipulati da Amato) e del 2009 (perfezionamento di Maroni) relativi al «contrasto dell’immigrazione clandestina, del terrorismo e del narcotraffico e da un protocollo tecnico».

Ho la sensazione che i libici abbiano torto senza che noi abbiamo del tutto ragione.
Nel Trattato italo-libico del 30 agosto 2008 si stabilisce un partenariato bilaterale tra i due paesi, esteso anche alla pesca. In teoria, dovrebbero esserci tutte le garanzie, persino in flagranza di reato (cioè non si può e non si deve sparare mai). La questione si riduce perciò alla domanda: i libici sapevano di questo Trattato? Ci sono tre inchieste in corso: una della magistratura ad Agrigento (tentato omicidio contro ignoti), una del ministero dell’Interno, una a Tripoli affidata a una commissione di cui, secondo le promesse dell’ambasciatore Hafed Gaffur, dovrebbero far parte anche gli italiani. Il torto nostro, a quanto capisco, sta solo in questo (e non è poco): ancora a giugno i libici hanno sequestrato e condotto nei loro porti tre barche italiane. Il 19 luglio hanno poi messo le mani sulla “Twenty three”, l’hanno portato a Sfax, si sono presi il pescato e hanno tenuto in galera l’equipaggio per 23 giorni, liberandolo solo dietro versamento di 15 mila euro da parte della Farnesina. Gli italiani, invece di stare zitti e pagare, avrebbero dovuto sollevare una questione in quel momento, perché i libici avevano torto pure quella volta.

Come fanno ad avere torto se noi andiamo a pescare nelle loro acque?
No, non è così. Il diritto marittimo internazionale stabilisce che sono acque territoriali quelle fino a 12 miglia dalla costa. Le barche nostre non si spingono così sotto terra, e infatti anche l’“Ariete”stava a 30 miglia, cioè aveva un vantaggio rispetto alla regola di 18 miglia. Gheddafi considera il golfo della Sirte roba sua, per ragioni storiche. Ma ha torto e comunque le ragioni storiche, cioè l’eccezione alla regola delle 12 miglia, deve essere stabilita dalla comunità internazionale su richiesta del Paese. La Libia non ha mai chiesto niente e la comunità internazionale non ha mai concesso alcuna deroga. Anche perché in quelle acque i siciliani vanno a pescare dal tempo dei tempi e sarebbe difficile dimostrare un primato storico di Gheddafi. A rigore, ha storicamente più diritto a star lì l’Italia della Libia.

Perché, almeno, i nostri non si sono fermati ai primi spari?
Perché quando si fermano la nave viene immancabilmente sequestrata, l’equipaggio arrestato, il pescato rapinato e ci vogliono poi migliaia di euro, versati dallo Stato, per tornare a casa. Quindi scappano.

I sei finanzieri italiani che si trovavano a bordo della motovedetta libica non potevano in qualche modo intervenire?
Maroni ha preteso un rapporto da tutt’e sei. Risulta questo: gli italiani, che sono consulenti dei libici per far funzionare le sei motovedette che abbiamo regalato a Gheddafi non potevano intervenire perché si trovavano a bordo in veste tecnica. Hanno raccontato di aver pianificato la missione con i loro colleghi africani e di essere usciti regolarmente. Quando è accaduto l’incidente però si trovavano sotto coperta. Almeno cinque di loro, cioè, perché i pescatori hanno sentito un italiano gridar loro: «Attenti che questi vi sparano». I sei finanzieri italiani riferiscono che i libici si sarebbero comportati secondo le regole: segnali acustici, poi segnali visivi, poi spari in aria.

• Bisogna credere a questa ricostruzione?
Penso di no. Da 48 ore il governo sta tentando di afflosciare la vicenda. La versione ufficiale da tutt’e due le parti è che i libici hanno tenuto un comportamento regolare perché hanno pensato che l’“Ariete” avesse a bordo dei clandestini. Le mitragliate erano dunque dirette contro dei presunti trafficanti. A parte che sparare è in ogni caso vietato, una versione molto poco convincente. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 16/9/2010]