vanity, 5 giugno 2006
Il caso D’Elia
• Un caso delicato è quello di Sergio D’Elia, ex dirigente di Prima Linea, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio dell’agente Fausto Dionisi (1978), uscito dopo dodici anni profondamente cambiato, militante radicale e attivo in particolar modo nell’associazione Nessuno tocchi Caino che vuole abolire la pena di morte, candidato a queste elezioni dalla Rosa nel pugno, eletto deputato e nominato la scorsa settimana vicesegretario della Camera. A questo punto c’è stata l’insurrezione del centrodestra e parecchio imbarazzo nel centrosinistra: può un ex terrorista – e sia pure divenuto un altro – essere riammesso alla vita civile fino al punto di fregiarsi del titolo di rappresentante del popolo? Dov’è il limite? Potrebbe, in linea teorica, diventare ministro, capo del governo, presidente della Repubblica? D’altra parte, la nostra sensibilità si accorda con l’idea di condanne perenni, inamovibili? Siamo davvero capaci di essere implacabili? Mariella Magi, vedova del povero Dionisi, ha protestato, D’Elia ha scritto una lettera a Bertinotti e non intende rinunciare, Di Pietro (centrosinistra) sostiene che chi ha subìto condanne passate in giudicato non dovrebbe essere più eleggibile. Polemiche analoghe un mese fa in occasione della pubblicazione del nuovo libro di Adriana Faranda con annesse presentazioni dell’opera, serate, interviste ecc. L’argomento degli avversari della Faranda (nel commando che sequestrò Moro) era: avrà pur scontato la pena, non per questo ci venga ora a far la lezione. [Giorgio Dell’Arti]