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 2007  dicembre 03 Lunedì calendario

Accordo Veltroni

• Veltroni ha passato la settimana scorsa a parlare con gli esponenti dell’opposizione, prima Fini, il giorno dopo Casini, giovedì 29 la Lega e venerdì 30, di pomeriggio, Berlusconi. Quest’ultimo incontro, durato appena un’ora e concluso da due conferenze stampa pressoché identiche (prima il Cavaliere, poi Veltroni), rischia di passare alla storia. Infatti i due hanno dichiarato di esser d’accordo:
- sul fatto che bisogna varare una legge elettorale proporzionale che semplifichi il panorama politico, cioè lasci fuori dal Parlamento i partiti troppo piccoli;
- sul fatto che i regolamenti parlamentari vanno modificati, soprattutto in quella parte che consente a deputati o senatori troppo disinvolti di separarsi dal partito che li ha fatti eleggere e di far gruppo a sé, guadagnando non solo in autonomia politica, ma anche in finanziamenti;
- sul merito di un primo gruppo di riforme istituzionali da realizzare e che riguardano i maggiori poteri del premier, l’abolizione del Senato (nel senso di non fargli più fare le leggi e di non affidargli più il voto di fiducia), la riduzione dei parlamentari.
Veltroni dice che queste poche riforme istituzionali vanno fatte subito, in modo da disegnare con maggior precisione la legge elettorale. Berlusconi, che ne condivide la necessità, non vuole però che se ne parli adesso, con questo governo e questa maggioranza. E con un altro governo, in questa stessa legislatura? Dice di no («dopo la nuova legge elettorale, si voti»), ma forse pensa di sì. Ha blandamente rimproverato il centro-sinistra per aver affossato col referendum le riforme costituzionali varate nella scorsa legislatura e che contenevano, appunto, monocameralismo, premierato forte, minori parlamentari (Veltroni: «Le abbiamo affossate per tutto il resto»). Non ha più preteso, per sedersi al tavolo, che Prodi si dimetta, anche se la fine di questo governo resta l’obiettivo principale del suo partito. Veltroni ha chiuso la sua conferenza stampa con due parole chiave: ”dodici mesi”. Cioè: «Bastano dodici mesi per fare le riforme».

• Che significa questa indicazione temporale? La lettura più ovvia è che, qualunque cosa succeda nelle prossime settimane, tra dodici mesi, e cioè poco dopo aver girato la boa della metà-legislatura (boa che garantisce una pensione di almeno tremila euro a tutti gli eletti), si andrà a votare. Prodi, che ha avuto un lungo colloquio con Veltroni domenica sera, «è freddo», come scrivono i cronisti. Cioè, è furibondo. Altro “odiatore” – secondo il felice termine coniato da Paolo Mieli – è Fini: avendo appena rotto con Berlusconi si ritrova in una posizione parecchio defilata, per non dire marginale. Vale a dire: sembrerebbe tagliato fuori da tutti i giochi, le decisioni delle prossime settimane non passeranno di sicuro da lui. Idem per Casini: anche se Veltroni-Berlusconi stanno facendo quello che lui raccomanda da un anno, non ha l’aria di poter interpretare un qualche ruolo nella commedia che andrà in scena prima del referendum. Dall’altra parte, l’intesa Veltroni-Berlusconi e la dichiarata fine della stagione delle contrapposizioni preventive, delle delegittimazioni reciproche, scompiglia il principio stesso su cui è nata l’attuale maggioranza di centro-sinistra che sostiene il governo Prodi: un’alleanza che aveva e ha il fine pressoché esclusivo di tenere Berlusconi lontano da Palazzo Chigi. Se Berlusconi non è più un babau, a che serve tenere in vita un governo tanto debole?

• Il vero collante del Veltrusconi (come è stata subito ribattezzata l’intesa tra i due) è in ogni caso la legge elettorale. Il Cavaliere ha detto che il sistema misto spagnolo-tedesco escogitato dai tecnici di Veltroni ha molti punti condivisibili e, quanto a quelli non condivisibili, è a portata di mano una correzione che metta le due parti d’accordo. Che significa? Prima dell’incontro, Berlusconi aveva detto, di passata, che il sistema spagnolo era ottimo e che si sarebbe dovuto applicare in Italia disegnando un centinaio di circoscrizioni elettorali. Senza farla troppo lunga con la matematica, basterà sapere che più la circoscrizione elettorale è piccola, più alta è la percentuale di voti necessaria per essere eletti. Ne consegue che l’eliminazione naturale dei candidati con poco consenso impone il ricalcolo dei voti andati alle formazioni maggiori, che quindi in termini percentuali ci guadagnano. Cioè, lo spagnolo introduce naturalmente sia uno sbarramento ai troppo piccoli che un premio di maggioranza ai più grandi, e consente anche di far entrare alla Camera un partito che, senza avere un gran seguito nazionale, abbia un forte radicamento locale. Come, per esempio, la Lega. Un calcolo a spanne dice che dividendo l’Italia in un centinaio di collegi si avrebbe uno sbarramento naturale dell’8-9 per cento, il che, allo stato attuale, garantirebbe rappresentanti a soli quattro partiti: quello di Berlusconi, il Partito Democratico, Alleanza Nazionale e la Lega, per via delle percentuali bulgare che Bossi raccoglie in certi collegi del Nord. Gli altri, per sopravvivere, dovrebbero fondersi prima del voto e rassegnarsi a non dividersi dopo, a causa della riforma del regolamento della Camera (vedi sopra). Possiamo immaginare che sarebbero costretti a nascere un Nuovo Partito Comunista, o Sinistra (Rifondazione + Diliberto + Verdi + Sinistra Democratica) e una Nuova Democrazia Cristiana, o Centro (Casini + Mastella + Lombardo + ex democristiani vari). Se il Veltrusconi non andasse in porto, invece, ci sarebbe il referendum, cioè tra il 15 aprile e il 15 giugno saremmo chiamati a votare i tagli all’attuale legge elettorale. Con la vittoria, al momento piuttosto scontata, dei “sì” avremmo un sistema che premia col 54% dei seggi, cioè la maggioranza assoluta, il partito più votato, il quale potrebbe in teoria governare da solo. Sbarramento del 4 per cento alla Camera e dell’8 per cento al Senato, divieto di candidarsi in più collegi contemporaneamente. In pratica se la giocherebbero Berlusconi e Veltroni da soli. Unico modo per evitarlo: un rinvio di un anno provocato da elezioni anticipate. [Giorgio Dell’Arti]