vanity, 4 febbraio 2008
Incontri decisivi
• Quando i lettori leggeranno questa rubrica, il presidente della Repubblica potrebbe aver già sciolto il Parlamento e chiamato gli italiani alle urne. Mentre scriviamo, invece (mattina di lunedì 4 febbraio 2008), stanno per cominciare i due incontri decisivi tra il presidente del Senato, Franco Marini, e i capi dei due partiti principali, Walter Veltroni del Pd e Silvio Berlusconi di Forza Italia.
• Marini è stato incaricato da Napolitano mercoledì 30 gennaio. Un incarico strano: non quello di formare un governo, ma quello di verificare se esiste una maggioranza favorevole alla modifica della legge elettorale. In base a quello che abbiamo sentito dichiarare fin dal primo giorno, questa maggioranza non esiste: Berlusconi, Fini e la Lega sono per le elezioni subito e con questa legge; Casini – che prima aveva chiesto un governo di pacificazione – è tornato di corsa sotto l’ala di Berlusconi quando ha visto che il partito gli si poteva sfaldare tra le mani: due suoi parlamentari, il senatore Baccini e l’onorevole Tabacci, se ne sono andati per conto loro e Baccini ha anche detto che potrebbe sostenere un eventuale governo Marini (in cambio forse della presidenza del Senato). Sono poi favorevoli alle elezioni la maggior parte dei partitini – tipo l’Udeur di Mastella – perché con le elezioni verrebbe rinviato di un anno il referendum. Ricordiamo che il referendum, se approvato, modificherebbe l’attuale legge elettorale in modo tale da decretare la fine delle formazioni più piccole.
• Benché Veltroni e quasi tutti i partiti di sinistra abbiano invocato un governo di larghe intese per fare almeno la riforma della legge elettorale e quella del regolamento della Camera («e poi subito al voto»); benché a questa richiesta si siano unite le organizzazioni della società civile (tipo i commercianti), la Confindustria, i sindacati; benché la Corte costituzionale abbia reso nota la motivazione con cui ha dato il via libera ai referendum, motivazione che dice in sostanza: «Nell’attuale legge elettorale ci sono gravi deficienze tecniche che potrebbero indurre la Corte ad annullarla in caso di ricorso»; benché quest’ultima frase significhi che, in caso di elezioni, qualche soggetto interessato potrebbe ricorrere alla Corte costituzionale e ottennere l’annullamento del risultato elettorale, dato che la legge è imperfetta; nonostante tutto questo, dunque, l’ipotesi del voto – mentre scriviamo – è ancora la più probabile e i partiti del centro-destra accusano quelli del centro-sinistra di voler solo perdere tempo in presenza di sondaggi tremendi, che annunciano per il centro-sinistra un risultato catastrofico. Esiste tuttavia una possibilità, preannunciata da un articoletto dell’onorevole Luciano Violante uscito sul Corriere della Sera, che lo scioglimento delle Camere proclamato dal Quirinale non precluda il referendum. Violante – lo ricordiamo – è magistrato, giurista e presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, quella che decide preventivamente sulla costituzionalità delle leggi.
• La Corte costituzionale, con una sentenza del 1978, ha riconosciuto che il Comitato promotore del referendum, una volta che il referendum abbia avuto il via libera, è un «potere dello Stato», cioè si pone costituzionalmente alla pari del presidente della Repubblica. Nella stessa sentenza, la Corte sostiene che, una volta approvato il referendum dalla medesima Corte, la convocazione del corpo elettorale «è un atto dovuto». Ora, è vero che nell’anno in cui si svolge un’elezione politica non può aver luogo – per legge – il referendum. Ma è anche vero, come scrive Violante, «che questo referendum riguarda non una legge qualsiasi ma la legge elettorale, che, come hanno riconosciuto le recenti sentenze della Corte sul referendum, ha caratteri del tutto particolari perché determina le regole per eleggere i rappresentanti del Popolo. Chi ha sottoscritto il referendum – continua Violante – intendeva eleggere il nuovo Parlamento con la legge referendaria. Se il Parlamento venisse eletto con la vecchia legge, verrebbe vanificato il senso stesso della richiesta dei referendari. In pratica, le forze politiche, incapaci di approvare una nuova legge elettorale, creerebbero le condizioni per lo scioglimento delle Camere, e quindi impedirebbero ai cittadini di pronunciarsi». Quindi: «Il Comitato promotore del referendum potrebbe sollevare davanti alla Corte costituzionale conflitto di attribuzione contro la deliberazione di scioglimento delle Camere». In pratica: Napolitano scioglierebbe le Camere, i referendari ricorrerebbero alla Corte costituzionale contro lo scioglimento, la Corte gli darebbe ragione e imporrebbe, prima, lo svolgimento del referendum. Convocare i comizi referendari è un atto di ordinaria amnministrazione, alla portata quindi del dimissionario governo Prodi. E perciò, in questo scenario: referendum – diciamo – il 20 aprile (prima domenica raggiungibile), scioglimento effettivo delle Camere il giorno 21, elezioni politiche quarantacinque giorni dopo, cioè intorno al 15 giugno. E Prodi dimissionario, ma sempre in carica (come vuole Berlusconi). [Giorgio Dell’Arti]