vanity, 6 febbraio 2008
Napolitano scioglie le Camere
• Alle 11 e 55 del mattino, il presidente Napolitano ha sciolto le Camere e subito dopo, in un consiglio dei ministri riunito apposta, Romano Prodi ha fissato la data delle elezioni politiche al 13-14 aprile. Il referendum, convocato il giorno prima per il 18 maggio, slitta di un anno. Ma il Comitato per il referendum ha presentato ricorso alla Corte costituzionale contro questo slittamento, dato che il referendum riguarda proprio la legge elettorale: i referendari vogliono che, nonostante le elezioni politiche, si voti subito. Anche Beppe Grillo ha presentato ricorso, sostenendo che la legge elettorale con cui voteremo ad aprile è incostituzionale. Nel frattempo, nei giorni compresi tra mercoledì 6 e lunedì 11 febbraio, sono accadute tali cose da far scrivere a Stefano Folli, principe dei commentatori politici italiani, che le prossime elezioni italiane rischiano a questo punto di essere davvero interessanti.
• Bisogna partire dalla frase di Veltroni: «Il Partito democratico correrà da solo». Caduto Prodi, il capo del centro-sinistra ha tenuto ben ferma questa posizione e ha improvvisamente rivelato le potenzialità dell’attuale porcellum, ossia della criticatissima legge elettorale. Riassumiamo la questione: il porcellum prevede che un partito possa entrare alla Camera solo se ottiene, a livello nazionale, almeno il 4 per cento dei voti. Vi sono solo due partiti, nel centro-sinistra, che hanno la certezza di farcela: il Partito democratico, che dovrebbe stare almeno intorno al 30 (somma dei voti presi nel 2006 da Ds e Margherita) e Rifondazione, che l’altra volta raccolse il 5,8 per cento dei consensi. Il porcellum consente però, ai partiti che non possono sperare di raggiungere il 4 per cento, di mettersi insieme e formare una coalizione. In questo caso, la percentuale richiesta a ciascun partito per essere ammessi a Montecitorio si dimezza: basta il 2%. Però la coalizione deve raggiungere almeno il 10. Ora, se facciamo i conti in tasca alle formazioni di sinistra, vediamo che il Pdci (Diliberto) l’altra volta prese il 2,3 e i Verdi portarono a casa il 2,1. Nessuna delle due formazioni può dunque correre da sola. Ma sarebbe anche inutile mettersi insieme perché 2,3+2,1 fa 4,4 e una coalizione, per guadagnar seggi, deve raggiungere almeno il 10. Non bastano di sicuro neanche i voti di Mussi, l’amico di D’Alema che non è voluto entrare nel Partito democratico e ha dato vita a Sinistra democratica. Ci vuole quindi per forza Rifondazione, bisogna cioè che le quattro formazioni di sinistra, se vogliono entrare alla Camera, facciano cartello, in modo da garantirsi il raggiungimento del 10 per cento come coalizione e una percentuale di appena il 2 come formazione singola. Ancora più difficile è la partita al Senato. Qui per entrare da soli bisogna prendere almeno l’8 e dunque non ce la fa neanche Rifondazione. Ai partiti coalizzati basterebbe il 3 ciascuno, purché la coalizione prenda addirittura il 20. Ai quattro della sinistra non resta perciò che una strada: fondersi. La lista risultante dalla somma delle quattro formazioni dovrebbe, almeno in certe regioni, superare il necessario 8 per cento. A meno che, di fronte alla prospettiva di una vittoria del centro-destra, l’elettorato di sinistra non preferisca concentrare i voti sull’unica sigla che ha qualche remota speranza di fermare il Cavaliere, cioè quella di Veltroni. Considerando che Dini e Mastella sono andati dall’altra parte, che i socialisti di Boselli spariranno perché non vogliono entrare nel Pd, che anche i radicali resteranno per strada per la stessa ragione e che Di Pietro è al limite (la situazione, mentre scriviamo, è ancora confusa) si vede che il quadro del centro-sinistra, fino a ieri definito col termine “ammucchiata”, s’è in poche ore chiarito e semplificato.
• Ma il porcellum e il suo sistema di sbarramenti sta producendo effetti analoghi anche sul centro-destra. Ottenute le elezioni anticipate, Berlusconi e Fini hanno deciso in poche ore di presentarsi non coalizzati, ma con un’unica lista chiamata “Partito del Popolo della libertà”, quella che Berlusconi lanciò lo scorso dicembre salendo sul predellino della mercedes in piazza San Babila a Milano. Con la Lega, «partito territoriale», si farà una federazione, cioè una coalizione, e la Lega del resto si presenterà solo al Nord. Quanto agli altri o entrano nel Partito della Libertà o corrono da soli, con tutte le conseguenze del caso (vedi sopra). Sono già entrati nel Partito della Libertà (o PdL) i liberaldemocratici di Dini e quelli della Nuova Dc. Fini non vuole il transfuga Storace, che con la sua formazione, La Destra, correrà da solo (ricordiamo: per avere seggi deve prendere almeno il 4 alla Camera e almeno l’8 al Senato). Resta il problema dell’Udc, cioè della formazione di Casini. Berlusconi lo ha trattato piuttosto male: Casini stava andando in treno a Bologna con la moglie, Azzurra Caltagirone, quando gli è squillato il telefonino. Dall’altra parte Gianni Letta, che gli ha comunicato la faccenda della lista unica aggiungendo: «Secondo noi, c’è posto anche per te». Casini s’è infuriato, rilevando la stravaganza di fargli sapere per cellulare che c’era addirittura stata una fusione dei due partiti fino a quel momento alleati e di invitarlo a entrare così, senza troppi preamboli, con una semplice telefonata. Chiusa la comunicazione e fatte le prevedibili dichiarazioni di fuoco alle agenzie, il capo dell’Udc ha però chiamato Ruini, il capo politico dei vescovi italiani, e Ruini ha preso la faccenda a cuore, parendogli grave che i cattolici, a questo punto, risultassero insignificanti sia a sinistra che a destra. Ha preso dunque un’iniziativa mai vista prima: ha chiesto al Tg1 di invitare in trasmissione Dino Boffo, il direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, e Boffo, nell’ora di massimo ascolto, ha esplicitamente perorato la salvezza dell’Udc e di Casini, ribadendo poi il suo sostegno col giornale. Pare che a questo punto Berlusconi si sia leggermente ammorbidito. Casini, per non sciogliersi nel PdL, dovrà però ammettere che il candidato premier dello schieramento è Berlusconi e che, dopo il voto, non farà gruppo a sé, ma gruppo unico con l’armata di Berlusconi-Fini. Se non significa sparire, poco ci manca. [Giorgio Dell’Arti]