vanity, 2 agosto 2010
Questioni politiche
• Giovedì 29
luglio, intorno alle sette di sera, l’ufficio di presidenza del Popolo della
libertà – cioè Silvio Berlusconi – ha deferito ai probiviri del partito i
finiani Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata ed espulso di fatto
il presidente della Camera, e cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini, a cui è
stato intimato di lasciare al più presto la presidenza di Montecitorio. «Le
posizioni dell’onorevole Fini sono assolutamente incompatibili con i princìpi
ispiratori del Popolo della libertà, con gli impegni assunti con gli elettori e
con l’attività politica del partito» si legge nel documento conclusivo scritto
da Sandro Bondi. E nella successiva conferenza stampa Berlusconi ha aggiunto:
«Non sono più disposto ad accettare il dissenso».
• Fini ha fatto subito sapere che non si sarebbe dimesso dalla presidenza
della Camera («quella posizione non è nella disponibilità del presidente del
Consiglio»), ha poi convocato una conferenza stampa (venerdì 30 luglio, ore 15,
hotel Minerva di Roma) e letto alla folla di cronisti un documento di una
paginetta e mezza, in cui si spiegava che proprio la richiesta di lasciare la
presidenza di Montecitorio dimostrava la logica aziendalista con cui Berlusconi
intende la politica. Il passaggio cruciale: «Ieri è stata scritta una brutta
pagina per il centrodestra e più in generale per la politica italiana. Io mi
sento particolarmente impegnato sul tema della legalità per onorare il patto
con i nostri milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze
dell’ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi
troppo spesso pretesa di impunità». Ha poi concluso: «Ringrazio i tantissimi
cittadini che in queste ore mi hanno manifestato solidarietà e mi hanno
invitato a continuare nel nome di princìpi come l’amor di patria, l’unità
nazionale, la giustizia sociale, la legalità intesa nel senso più pieno del
termine: cioè lotta al crimine come meritoriamente sta facendo il governo. Ma
anche etica pubblica, senso dello Stato, rispetto delle regole».
• Giovedì sera Berlusconi aveva detto: «Facciano i gruppi, facciano quello
che vogliono, il governo non è in pericolo». Infatti il Cavaliere credeva di
sapere, o fingeva di credere di sapere, che appena una decina di deputati e non
più di quattro senatori avrebbero seguito Fini in un’eventuale avventura scissionista.
Invece, già il venerdì, Fini poteva annunciare la nascita alla Camera di un
gruppo molto consistente, 33 deputati «che potrebbero diventare una cinquantina
a settembre» secondo il dissidente attore-produttore Luca Barbareschi. Anche al
Senato, se pure con qualche difficoltà, Fini è riuscito a mettere insieme i
dieci parlamentari che ci vogliono per costituire un gruppo. E con questa forza
di interdizione si prepara adesso a rendere la vita difficile al governo, cioè
a costringere il presidente del Consiglio a «camminare sulle uova» secondo
l’espressione del senatore Augello (rimasto però con Berlusconi). A Palazzo
Madama infatti il governo mantiene una maggioranza teorica di un paio di
senatori, ma a Montecitorio è irrimediabilemte sotto: senza i finiani ha 309
voti e per esser maggioranza ce ne vogliono come minimo 316.
• Mentre i due nuovi gruppi prendevano il nome di “Futuro e libertà per
l’Italia”, da cui la tentazione di chiamar “futuristi” i finiani e la sigla
“Fli” apparsa per la prima volta sui giornali di oggi, bisognava
prender atto però che in teoria alla maggioranza non è accaduto nulla, perché i
dissidenti amici del presidente della Camera si sono dichiarati leali al
governo secondo il patto sottoscritto a suo tempo con gli elettori. Quindi –
dicono - il loro voto per le questioni previste nel programma elettorale non
sarà mai negato, mentre si deciderà di volta in volta per tutto il resto. I
punti teorici di conflittualità sono però parecchi. Intanto l’atteggiamento da
tenere sul caso del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, indagato
nell’ambito dell’inchiesta cosiddetta P3. L’opposizione ha presentato una
mozione di sfiducia e Berlusconi ha fatto capire che se i futuristi la
voteranno facendola passare, questa sarà per lui una ragione sufficiente per
far la crisi. Altri punti di contrasto eventuali dopo l’estate: la legge sulle
intercettazioni (che potrebbe però essere accantonata), la retroattività del
lodo Alfano, la legge sul processo breve - d’un tratto tornata in calendario
dopo l’indiscrezione che la Corte costituzionale, il prossimo 14 dicembre,
boccerà la legge sul legittimo impedimento -, il biotestamento, la finanziaria
di Tremonti, il voto agli immigrati e soprattutto i decreti attuativi del
federalismo che annunciano uno scontro al calor bianco con la Lega.
• L’ago della bilancia, a quanto pare, sta infatti in mano proprio alla
Lega. I decreti attuativi della riforma federalista – o legge Calderoli –
scadono infatti il prossimo 5 maggio e se non saranno emanati entro quella data
il castello di Bossi verrà giù un’altra volta. Per questo il Senatùr, nel
famoso giovedì sera, consigliava al Cavaliere di andare in ferie e per questo
adesso la Lega sarebbe molto incerta sull’eventualità di andare subito alle
elezioni senza poter esibire il raggiunto federalismo. Incerta, sì, ma forse
non fino alle barricate.
• Quello che vuole andare alle elezioni, e possibilmente il più presto
possibile in modo che i finiani non abbiano il tempo di organizzarsi sul
territorio, è Berlusconi. Ha un ottimo capro espiatorio nel presidente della
Camera (in campagna elettorale può accusarlo di tutto quello che non è stato
fatto), non ha un avversario credibile, anche se ha detto di tener d’occhio
Nichi Vendola, può sempre sostenere che il suo governo ha retto meglio di altri
la crisi economica, tenuto alla larga gli immigrati, riformato la scuola e
catturato, nonostante le calunnie dei magistrati, un mucchio di mafiosi,
camorristi e ‘ndranghetisti. I sondaggi adesso lo dànno in calo, ma, come
sappiamo, in campagna elettorale il Cavaliere è un’altra cosa. Per convincere
la Lega, una strada forse c’è: offrire a Bossi almeno una ventina di deputati
in più, da prendere chiaramente tutti al Nord.
• Proprio perché lo vuole Berlusconi, sono contrarissimi al voto
anticipato tutti gli altri, che sognano, al momento dell’agognata caduta del
Cavaliere, di poter formare un esecutivo “di responsabilità nazionale”, un
“governo tecnico”, un “governo istituzionale”, un “gabinetto delle larghe
intese” cioè, in definitiva, un governo del “tutti insieme, ancora una volta,
in nome dell’antiberlusconismo”. E quindi: Casini, il Pd, l’Idv, Fini e le
sinistre estreme recuperate sul territorio, più quel pulviscolo di formazioni,
tipo l’Api o l’Mpa o i Liberaldemocratici, che occupano genericamente il centro
dello schieramento. Potrebbero costoro, senza l’apporto della Lega, dar vita a
una maggioranza? Si direbbe di no, anzi certamente no al Senato dove, allo
Stato, Berlusconi e Bossi hanno più numeri (vedi sopra). Dunque, anche qui, ci
vorrebbe la Lega, cioè bisognerebbe che lo Schieramento (chiamiamolo così)
garantisse a Bossi quello che non può garantire Berlusconi, vale a dire i
decreti attuativi e, per sicurezza, la presidenza del Consiglio a Tremonti.
Molto difficile se si pensa a quanto è anti-leghista Casini e poco amante di
Bossi e Tremonti Fini. Per non dire dei mal di pancia che provano, solo a
sentir nominare la Lega, tanti pezzi del Pd. [Giorgio Dell’Arti]