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 2008  settembre 22 Lunedì calendario

Due fatti importanti

• Settimana dominata da due fatti: il ritiro da parte di Cai dell’offerta d’acquisto di Alitalia; il disastro finanziario americano, originato dai mutui subprime, a cui il ministro del Tesoro di quel Paese e la Federal reserve intendono far fronte con un piano straordinario di indebitamento pubblico pari a 700 miliardi di dollari.
• Giovedì 18 settembre, nel pomeriggio, Roberto Colaninno, presidente di Cai - la società creata apposta, su incitamento di Berlusconi, per comprare Alitalia –, ha ritirato la sua offerta d’acquisto della compagnia. Gli azionisti di Cai erano riuniti a Milano, in Palazzo Clerici, e la discussione è durata poco più di un’ora. Conclusione votata all’unanimità: andatevene a quel paese. Quelli che dovevano andarsene a quel paese - nelle intenzioni dei soci Cai – sono i sindacati, e in particolare la Cgil e le due sigle che rappresentano i piloti (Anpac e Up). Come si ricorderà, gli ipotetici nuovi padroni della compagnia avevano cominciato la loro trattativa chiedendo tagli agli stipendi di almeno il 20%, aumento di produttività di almeno il 30% e fusione dei nove sindacati in un’unica rappresentanza unitaria. Soprattutto: i soci Cai non ammettevano assolutamente che rappresentanti sindacali avessero voce in capitolo in scelte strategiche che spettano solo ai manager. Quest’ultima pretesa avrebbe però significato la morte di alcune sigle, e in particolare dell’Anpac, la più forte rappresentante dei piloti. Così, fino a mercoledì, il piano di Cai – che nel frattempo aveva fatto concessioni su stipendi ed esuberi – era stato sottoscritto pienamente solo da Cisl, Uil e Ugl. La Cgil aveva dato un assenso ambiguo: ci stava, ma riteneva essenziale il consenso dei piloti, «dato che senza piloti nessuna compagnia aerea può volare». Le altre sigle – quelle dette ”professionali” per non dire “corporative” – nicchiavano senza decidersi. Venne allora dato un ultimatum dallo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta: o il sì di tutti o il ritiro dell’offerta. Ora di scadenza stabilita: le 15.50 di giovedì 18 settembre, poiché alle 16.00 sarebbe cominciata l’assemblea dei soci Cai deputata a decidere. Invece del sì arrivò però, proprio all’inizio dell’assemblea, una lettera firmata da Cgil Trasporti, Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia e Sdl in cui in pratica si chiedeva la riapertura del negoziato. L’assemblea rispose allora come aveva promesso: ritiro dell’offerta. La vicenda Alitalia entrava così in una nuova fase. Forse l’ultima.

• Ecco ciò che accadde subito dopo, e nelle ore e giorni successivi. A Fiumicino un migliaio di lavoratori Alitalia – specialmente piloti e hostess – salutarono l’abbandono di Cai con urla di gioia. Si sentì gridare lo slogan: «Meglio falliti, che annà co’ ’sti banditi», mandato in onda dalle televisioni decine di volte perché l’esultanza di costoro pareva inspiegabile: non avevano capito che la compagnia sarebbe fallita e avrebbero perso il posto? Pietro Ichino, l’esperto del lavoro del Partito democratico, spiegò la cosa domenica mattina sul Corriere della Sera, con un editoriale clamoroso, dato che veniva da un uomo di Veltroni: ai lavoratori era stato promesso troppo – sette anni di assegno garantito – e alla fine per loro risultava più conveniente starsene a casa che continuare a lavorare. Ichino allargava addirittura il discorso: forse il sistema degli ammortizzatori sociali italiano andava ripensato da cima a fondo. Nel frattempo il Partito democratico tuonava che il commissario di Alitalia, Fantozzi, aveva il dovere di impegnare le proprietà dell’azienda per continuare l’attività, in modo che ci fosse il tempo di tornare al tavolo. Veltroni accarezzava infatti l’idea di risultare lui il salvatore dell’azienda, costringendo le parti a incontrarsi di nuovo. Berlusconi invece gridava che a questo punto o il sindacato accettava tutto senza discutere oppure non c’era che il fallimento. Mentre scriviamo è in corso un fitto chiacchiericcio che ha l’aria di non portare da nessuna parte. Gli unici che stanno zitti sono Colaninno e gli altri soci di Cai, i quali forse attendono una telefonata di Epifani. Che però, benché sollecitato, non chiama.
Come abbiamo già spiegato la settimana scorsa, le sorti di Alitalia sono nelle mani di Augusto Fantozzi, il commissario liquidatore. L’idea del Pd che egli possa andare in banca e chiedere soldi dando in garanzia le proprietà dell’azienda è semplicemente folle: il codice civile stabilisce che il responsabile legale dell’azienda (nel nostro caso il commissario), una volta constatata l’impossibilità di salvare la società, deve occuparsi solo dei creditori e salvaguardare il patrimonio che permetterà di saldare in tutto o in parte i debiti. A rigore, benché il personale Alitalia abbia dichiarato di voler continuare a lavorare senza stipendio, il commissario dovrebbe vietarglielo (i lavoratori in questo modo accrescono comunque il proprio credito) e non dovrebbe nemmeno acquistare carburante (a meno che non venisse certificato che si tratta di una donazione), dato che questo sarebbe – dal punto di vista della soddisfazione futura dei creditori – uno spreco. Inoltre l’Enac, in assenza di novità, ritirerà in ogni caso ad Alitalia la licenza di volo, al più tardi la settimana prossima. Dunque, le probabilità del fallimento sono altissime e l’eventualità più probabile (mentre scriviamo solo sussurrata) è che Cai compri proprio dal curatore fallimentare quello che le serve (marchio, slot eccetera), a questo punto a prezzo ulteriormente scontato e senza nessun obbligo verso gli ex dipendenti, che potrebbe assumere liberamente sul mercato, non avendo più obblighi né di inquadramento né di salario, a parte quelli imposti dal mercato e dai contratti in essere. Prendendo dalla cassa gli ex lavoratori Alitalia, anzi, potrebbe risparmiare sui contributi (50 per cento in meno per 18 mesi). E i lavoratori, nel frattempo, non sarebbero più in cassa per sette anni, ma solo per tre o per due, dato che il fondo deputato a garantire il trattamento settennale doveva essere alimentato proprio dai versamenti dei dipendenti Cai assunti in base all’accordo ipotizzato dalla legge.
Come si capisce subito, una soluzione del genere rappresenterebbe, soprattutto per la Cgil, ma anche per gli altri sindacati, l’inizio della rottamazione. Il padrone sarà anche cattivo – come ha scritto Scalfari domenica scorsa –, ma quello di esser cattivo è il suo mestiere. Il sindacato invece spiegherà difficilmente a quelli che rappresenta perché ha lasciato che di 13-14 mila posti di lavoro si facesse strame. Certamente Epifani – che qui ha ceduto alla sua sinistra – sarà indebolito nell’essenziale negoziato parallelo con la Confindustria relativo alla forma dei contratti. Ed è probabile che la vicenda Alitalia inneschi una riflessione profonda di tutto il quadro politico sulle caratteristiche della rappresentanza, a questo punto da regolare (chi ha titolo per parlare a nome dei lavoratori? come si conquista questo titolo?): ne ha già accennato, nell’editoriale citato più sopra, il parlamentare del Pd Pietro Ichino. Quanto a Berlusconi, è probabilmente illusoria l’idea di Veltroni che paghi la vicenda in termini di consenso. Il Paese, infatti, detesta i lavoratori Alitalia per tutto ciò che essi hanno fatto passare ai cittadini in passato con le loro rivendicazioni selvagge, mai mostrandosi minimamente sensibili alle difficoltà che creavano ai viaggiatori e alle loro famiglie. Il sito del Corriere della Sera ha chiesto, con un sondaggio, se lo Stato dovesse intervenire o no. «No, non deve intervenire» ha infatti risposto il 91,3 per cento dei lettori. Poi ha chiesto se Alitalia dovesse fallire o no. «Sì, deve fallire» ha ancora risposto l’82,3 per cento.

• Stati Uniti: al fallimento della Lehman Brothers, lasciata andare al suoi destino dalle autorità americane, ha fatto seguito l’inopinato salvataggio di American International Group, cioè della più grande compagnia d’assicurazioni del mondo. Aig chiedeva, per superare il momento critico, una settantina di miliardi in prestito. Il ministro del Tesoro Paulson e il governatore della Fed Bernanke hanno deciso di dargliene 85, prendendosi in garanzia l’80 per cento dell’azienda. Era lunedì notte, le Borse continuavano a precipitare, si annunciava una fusione disperata di Merryl Linch con Goldman Sachs, il mercato inglese era in fondo all’abisso, gli esperti snocciolavano i nomi di decine di società finanziarie grandi e piccoli già condannate. Paulson e Bernanke se ne sono usciti allora annunciando un piano di intervento straordinario, mille miliardi (poi diventati settecento) da mettere sul tavolo per risolvere definitivamente il problema. Le Borse schizzavano in alto (Milano segnando addirittura un +7,7 record assoluto da quando esiste la Borsa telematica) e tutt’a un tratto sembrava tornato il sereno. Naturalmente, si tratta di un sereno foriero di un maltempo forse meno tempestoso, ma più duraturo. In pratica lo Stato americano si impegna, con questa manovra, a coprire i debiti delle banche. Chiederà i 700 miliardi ai risparmiatori e glieli toglierà col sistema italiano dei Bot. In questo modo il suo debito arriverà a 15 mila miliardi di dollari, cioè al 120% del Pil. Situazione tipicamente italiana (il nostro debito è di 1600 miliardi di euro, pari al 105% del Pil), che si sostiene – come sappiamo – torchiando di tasse il contribuente e spingendo quindi l’economia verso l’immobilità. Finirà che gli americani avranno grossi problemi politici all’interno e compreranno sempre di meno all’estero. Non sono proprio notizie buonissime. [Giorgio Dell’Arti]