vanity, 15 dicembre 2008
Brunetta e le pensioni
• Il ministro Brunetta occupa nuovamente la ribalta grazie al fatto che vuole mandare le statali in pensione a 65 anni invece che a 60. Non si tratta di un’uscita estemporanea: lo scorso 13 novembre la Corte europea ha condannato l’Italia perché manda gli statali in pensione a 65 anni e le statali a 60. Senza specificare se a esser discriminati siano i maschi o le femmine, i giudici affermano che questo trattamento diversificato è incompatibile con le regole europee e ci invita a rimediare. Se ci sarà una seconda condanna (entro un anno) l’Italia potrebbe essere condannata a pagare una multa quotidiana oscillante tra gli 11.904 e i 714.240 euro.
Naturalmente Cgil-Cisl-Uil, i cui iscritti sono in gran parte pensionati, si sono messi subito di traverso, tacciando oltre tutto il ministro di superficialità o pressapochismo, ma senza specificare che cosa si dovrebbe fare in presenza di una presa di posizione della Ue e dei suoi giudici (l’aria che tira tra i sindacati su questo punto è più o meno: chi se ne frega dell’Europa). Un’opposizione più sostanziale rileva che la pensione anticipata delle donne (statali e no) non è che la coda di paglia di un sistema maschiocentrico che sa benissimo di discriminare pesantemente il lavoro femminile. Per esempio: il tasso di occupazione delle donne è del 46%, quello degli uomini è del 70: la retribuzione femminile media (parliamo di lavoratori dipendenti) è di 15 mila euro l’anno, quella maschile di 21 mila; al momento della pensione, gli uomini prendono il 64% dell’ultimo stipendio, le donne il 46%; la pensione media di una donna è di 520 euro al mese, quella di un uomo di 980. Eccetera. E quindi: si rimuovano prima le cause che discriminano così fortemente le donne e poi si parifichi l’età della pensione. Tutto giusto, ma intanto c’è la sentenza europea a cui è necessario adattarsi. Escluso di rimandare gli uomini in pensione a 60 anni (i conti dello Stato salterebbero), è anche escluso di mandare in pensione a 65 le sole statali, dato che il principio (sacrosanto) che vige in Italia è che non si possono creare discriminazioni tra categorie o persone e quindi se le statali andassero in pensione a 65 anni, bisognerebbe deliberare qualcosa di analogo anche per il settore privato. Tanto più che una vecchia legge del ”58, che a questo punto bisognerà abrogare, permette agli statali di qualunque sesso di licenziarsi e di trasferirsi, come previdenza, dall’Inpdap all’Inps: questo consentirebbe di nuovo alle donne di andare in pensione prima, scassando però definitivamente i conti dell’istituto (si tratterebbe di un milione e quattrocentomila pensioni in più l’anno).
Non resta, apparentemente, che una soluzione: metter mano nuovamente a tutto il sistema - pubblico e privato -, creando una fascia d’età in cui si può, a scelta, andare o non andare in pensione, e incentivando la permanenza al lavoro o disincentivando l’andata in pensione. O magari tutti e due, e sia pure con buona pace dell’occupazione giovanile, sempre dimenticata. Qualcosa di simile ai bonus che Maroni aveva inventato quando era ministro del Lavoro e che Prodi abolì. In questo momento, il partito del sì all’aumento dell’età pensionabile femminile attraversa tutto lo schieramento, da destra a sinistra. E idem il partito del no. La Lega, che però non va presa troppo sul serio perché da un po’ di tempo fa di tutto per marcare una propria differenza dagli alleati, ha preso Brunetta a ridere («Brunetto-scherzetto», scandito da Calderoli). [Giorgio Dell’Arti]