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 2009  aprile 20 Lunedì calendario

Referendum

• La faccenda del referendum è in ebollizione mentre scriviamo. Esclusa ormai la data del 7 giugno (sono scaduti i termini) restano in ballo le date del 14 o del 21 giugno oppure, nientedimeno, il rinvio all’anno prossimo. Polemiche feroci sui costi: i referendari e il Pd, basandosi su calcoli abbastanza balordi del sito la voce.info, dicono che non aver accorpato alle europee il voto referendario ci costerà 400 milioni, «che si sarebbero potuti dare ai terremotati». Questo numero si ricava però calcolando anche – per esempio –  il valore del tempo che uno impiega per andare al seggio e questo tipo di denaro, naturalmente, non si potrebbe versare a favore dell’Abruzzo. La cifra più ragionevole dello spreco sembra essere quella di cento milioni, che non è poco ma è comunque un quarto di quella che viene sbandierata da tutti quanti. Il 21 giugno il referendum sarebbe abbinato ai ballottaggi delle amministrative e, con una trentina di città coinvolte, vi sarebbe ancora una chance per il raggiungimento del quorum. Per tenere la consultazione a quella data, che oltrepassa il tempo massimo previsto dalla legge (15 giugno), ci vuole però un decreto e la Lega si prepara a dar battaglia per bocciarlo: il “no” di Camera e Senato garantirebbe la chiamata automatica alle urne per il 14. E il 14 – pensano tutti – andrebbero a votare sì e no un terzo degli italiani: addio quorum. L’ipotesi di far slittare tutto all’anno prossimo – al momento la meno probabile – è forse fuori-legge e comunque richiede l’assenso del Comitato del Referendari (un organismo costituzionale). Tifano per lo slittamento soprattutto quelli di An e, sotto sotto, anche Berlusconi: il referendum è infatti un’ottima arma di pressione sulla Lega, e poterla brandire per un altro anno è tentante.

• A proposito, il referendum taglia la legge elettorale in modo tale che, vincendo i sì, il premio di maggioranza non vada più alla coalizione ma alla lista più votata (ecco la perdita di peso della Lega), sia precluso del tutto l’accesso in Parlamento ai partiti che non prendono almeno il 4 per cento alla Camera e l’8 per cento (regionale) al Senato, non sia più possibile per lo stesso candidato presentarsi contemporaneamente in più collegi. [Giorgio Dell’Arti]