20 aprile 1978
Tags : Aldo Moro, il sequestro e l’uccisione
Trentaseiesimo giorno del sequestro Moro
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Aldo Moro è vivo. Le Brigate rosse diffondono l’autentico Comunicato numero 7
in cui pongono un ultimatum preciso: la vita dell’ostaggio in cambio della
libertà di «prigionieri comunisti», e alle tre del pomeriggio fanno trovare la
prova definitiva: una polaroid in bianco e nero che ritrae il presidente della
Dc con in mano una copia del quotidiano la Repubblica del 19 aprile.
L’ultimatum dei terroristi ha anche una scadenza: le 15 di sabato 22. Entro
quell’ora le Br vogliono dalla Dc «una risposta chiara e definitiva se intende
percorrere questa strada (quella dello scambio di prigionieri, ndr); deve
essere chiaro che non ce ne sono altre possibili». [Cds 21/4/1978]
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Di fronte all’ultimatum reale, non più solo a ipotesi, si precisano le
posizioni dei partiti. Il primo «no» è stato quello dei comunisti: lo Stato non
può cedere, coi nemici della Repubblica non si tratta. Il primo «sì» è venuto
dai socialisti: lo Stato ha innanzitutto il dovere di tutelare la vita dei
cittadini, se è impraticabile l’idea di uno scambio, chiudersi in un rifiuto
pregiudiziale equivarrebbe ad apporre «la controfirma sulla sentenza di morte
contro Moro». A favore del dialogo, fin dall’inizio, anche Manifesto, Pdup,
radicali e alcuni settori cattolici. Grande travaglio nella Democrazia
cristiana: una lettera di personalità politiche e religiose pugliesi, tra cui
nove deputati, apre le porte al dialogo con i terroristi. [Cds 21/4/1978]
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Nel tardo pomeriggio arriva a Zaccagnini una lettera di Moro. Sei pagine
scritte a mano per un nuovo appello sulla falsariga dei precedenti. «Vi è
svolta la tesi, abbastanza lucida e sufficientemente condivisibile, che il
“rispetto cieco della ragion di Stato” nel non voler riscattare la sua vita
reintroduca di fatto la pena di morte nell’ordinamento costituzionale
italiano». [Sciascia 1978] «Ma questa volta Moro, pur premendo sui compagni di
partito perché si adoperino per la sua liberazione, mostra di rendersi conto
delle drammatiche difficoltà che tale scelta comporta per la Dc». [Padellaro
Cds 22/4/1978]
• A
Milano le Brigate rosse uccidono con sette colpi di pistola Francesco Di
Cataldo, 52 anni, maresciallo maggiore delle guardie di custodia, in un agguato
sotto casa. «Torturatore di detenuti» lo definiscono i suoi assassini in una
telefonata anonima all’Ansa. Ma i detenuti di San Vittore hanno aperto una
sottoscrizione per mandare fiori al suo funerale. A Milano le Brigate rosse
finora avevano teso agguati ma non ancora ucciso. [Cds 21/4/1978]