3 giugno 1963
“Pastore e capo”
Quando Giovanni XXIII fu elevato al pontificato, il pubblico profano sapeva poco del cardinale Roncalli, patriarca di Venezia. Quasi tutta la carriera del Roncalli si era svolta fuori d’Italia, quale delegato apostolico: più di vent’anni passati tra Sofia, Atene e Istanbul. La nunziatura a Parigi, in un momento non facile, premiò una carriera oscura, anche se non priva di meriti.
Non appena il pontificato lo rese familiare alla grande famiglia dei fedeli, nella sua immagine fisica, ciò bastò perché l’istinto popolare indovinasse subito nel sorriso di quel volto l’anima evangelica del nuovo Pontefice. Non c’era bisogno di sapere per quali titoli Giovanni XXIII era stato scelto nel conclave, quali benemerenze di dottrina o di ministerio lo avessero spinto così in alto. In quel sorriso il popolo aveva già imparato che la cattedra di Pietro era andata ad un Papa pio e buono, semplice e caritatevole. Ed effettivamente, la sua bontà, poi, si è rivelata di quella specie rara, intesa non solo a consolare gli afflitti, ma anche a redimere i peccatori con la comprensione e con la misericordia. Perciò fu subito un Papa amato e popolare.
Un altro lato del suo carattere piacque: nei limiti del possibile, egli cercò di esercitare, con zelo, il suo ministerio di vescovo di Roma. Sembrò prete per irresistibile vocazione. Non si esonerava mai da atti pastorali e vi si dedicava, anzi, con giocondo fervore.
Ma non stava tutto qui Giovanni XXIII. E ce ne accorgemmo, quando vennero le encicliche e quando il 25 gennaio del 1959, nella basilica di San Paolo dinanzi al Sacro Collegio dei Cardinali, annunciò solennemente la convocazione di un concilio ecumenico. Il Papa dal sorriso bonario, il Papa che sarebbe stato felice d’essere semplice parroco, dette la prova di essere anche un capo della Chiesa, che voleva lasciare una impronta del suo passaggio sulla cattedra di Pietro.
Con l’enciclica Mater et magistra, Giovanni XXIII, infatti, cominciò col dettare il suo magistero sulla questione sociale, che è sempre il tema inquietante del nostro secolo, sia nei rapporti tra le classi, sia in quelli fra le nazioni.
L’enciclica si riallaccia a quelle sociali precedenti: la Rerum novarum di Leone XIII e la Quadragesimo anno di Pio XI. Sostanzialmente, essa non innova l’insegnamento della Chiesa sull’argomento, insegnamento il cui spirito è di pacificazione tra le classi e di conciliazione degli interessi. Mentre da un lato conferma il diritto della proprietà privata, dall’altro assegna particolari doveri sia ai privati che allo Stato, per l’equa remunerazione del lavoro o per quegli interventi pubblici sussidiari in tutti i casi in cui l’economia privatistica non sia soddisfacente.
Un più ampio sviluppo delle idee tracciate nella Mater et magistra (maggio 1961) venne poi dato nell’altra enciclica Pacem in terris, due anni dopo (aprile 1963). E la ragione, per la quale Giovanni XXIII sentì il bisogno di riprendere il discorso a così breve distanza di tempo, sta forse nel fatto che egli, nella sua vigile ansietà paterna per le sorti attuali dell’umanità, era venuto acquistando una coscienza sempre più preoccupata dello sconcertante allargamento del quadro geo-politico della storia umana. Per effetto di esso, la cristianità, che fino a ieri combaciava quasi esattamente con il mondo civile ed aveva l’incontrastato comando su chi ne stava fuori, si era ridotta ad una porzione soltanto dell’umanità, stretta da un lato da un gruppo potentissimo di nazioni avverse e minacciose e dall’altro lato da una folla di popoli nuovi o rinascenti, indecifrabile incognita per l’avvenire.
Nella Mater et magistra, solo nei due ultimi capitoli erano prospettati il tema dei rapporti tra paesi a sviluppo economico di grado diverso e quello di una collaborazione dei popoli sul piano mondiale. Nella Pacem in terris, invece, tutta la terza e quarta parte, le più diffuse ed importanti, sono dedicate ai rapporti tra gli esseri umani e le comunità politiche con la comunità mondiale. E, come a suo tempo fu convenientemente sottolineato, l’enciclica venne meditatamente indirizzata non soltanto alle gerarchie, al clero e ai fedeli, ma anche a “tutti gli uomini di buona volontà”.
Le ansietà di Giovanni XXIII trovarono, infine, la loro pratica espressione nella convocazione del concilio. Questo doveva essere per la Chiesa una pausa di raccoglimento per ricementare la sua unità e per aggiornarla, non nella dottrina che si suppone “sempre presente e familiare, secondo l’insegnamento dei padri e teologi antichi e moderni”, ma per rendersi più adatta alla penetrazione delle coscienze nelle maniere volute dai tempi.
Il concilio doveva poi mostrare la propria sollecitudine per i fratelli separati e adoperarsi per l’unità della famiglia cristiana. Ed infine, rispetto ai suoi avversari, la Chiesa oggi doveva usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità.
Oltre che nell’allocuzione inaugurale, si può trovare altrove un’interpretazione più famigliare e confidenziale degli scopi che Giovanni XXIII s’era proposti. Ricevendo le missioni straordinarie, riconfermò che il concilio “era un invito rinnovato ai fedeli delle comunità separate a seguirci anch’esse con amabilità in questa ricerca di unità e di grazie, cui tante anime aspirano su ogni punto della Terra”. E ricevendo gli osservatori della Chiesa Ortodossa di Mosca volle ricordare che ogni volta che nelle sue missioni all’estero s’era incontrato con uomini appartenenti a diverse professioni religiose aveva detto che, fermo ognuno nella propria fede, non ci poteva essere differenza nel lavoro comune della carità: “Non abbiamo parlamentato, ma parlato: non abbiamo discusso, ma ci siamo amati”.
Sotto questo profilo, assai più che per le dottrine sociali, Giovanni XXIII ebbe veramente una coscienza originale e moderna dei compiti della Chiesa. Egli aveva compreso, e senza sgomento, coraggiosamente, che in questo mondo tumultuante, al di fuori delle frontiere tradizionali della civiltà, s’era inaugurata una nuova era o meglio s’era riaperta la vecchia era dell’evangelizzazione. Bisognava quindi serrare le file, seppellire o attenuare le vecchie divisioni ed andare incontro al destino con la forza della benignità.
Panfilo Gentile
[Cds 4/6/1963]